Kasia Smutniak, il dramma dei migranti nel primo film da regista: "L’ho sentito necessario"

L'attrice polacca naturalizzata italiana all'esordio dietro la macchina da presa, con Marella Bombini. "Conosco la forza delle immagini, con Mur volevo fare vedere e conoscere una storia"

di GIOVANNI BOGANI -
25 novembre 2023
intervista a Kasia Smutniak

intervista a Kasia Smutniak

"Essere donne è stato un vantaggio per noi. Perché ci sottovalutavano. Non pensavano che fossimo davvero capaci di fare un film…". E invece, il film l’hanno fatto. Kasia Smutniak e Marella Bombini lo hanno fatto. Con coraggio, rischiando di essere arrestate dalla polizia polacca, finendo con l’essere inseguite, nello stesso bosco livido dove vengono inseguiti i migranti, quelli che cercano di raggiungere l’Europa, un’idea di occidente, di salvezza.
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Kasia Smutniak e Marella Bombini per l’uscita del documento-film MUR (Giuseppe Cabras/New Press Photo)

"Mur", il film di Smutniak e Bombini

Il loro film si chiama "Mur", il muro. Dopo essere stato presentato al Toronto Film festival e alla Festa del cinema di Roma, è stato presentato a Firenze, al Festival di cinema e donne. Un festival che, da 44 anni, non smette di raccontare storie di donne, storie narrate da donne. "In Polonia c’è un muro, il muro più lungo d’Europa, un progetto costosissimo, che chiude tutto il confine con la Bielorussia", dice Smutniak, che incontriamo a margine della proiezione del film. "E a quel muro non ti puoi neanche avvicinare: né come profugo, come migrante, né come giornalista, come reporter. Quel muro c’è, ma rimane invisibile", dice. Avete girato voi stesse, con quali mezzi? "Non potevamo portare luci, microfoni esterni, attrezzature pesanti. Dovevamo fare riprese veloci, rubate: abbiamo girato con un iPhone, con una telecamera con il fuoco automatico, perché più agile, più pronta. Molte immagini sono rubate, a volte abbiamo dovuto nasconderla. All’inizio del progetto avevamo due operatori, ma li abbiamo persi, perché sono dovuti andare a filmare la guerra in Ucraina. Ci siamo trovate da sole, e abbiamo fatto di necessità virtù: siamo state operatrici, registe e testimoni di quello che vedevamo". Che cosa è stato più difficile per lei, Kasia? "La mia paura più grande era quella di non riuscire a essere abbastanza forte psicologicamente, per reggere tutto quello che vedevo, e che sentivo".
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Il docufilm è stato girato interamente dalle due donne, con mezzi di fortuna e spesso di nascosto (Giuseppe Cabras/New Press Photo)

La forza delle immagini oltre la paura: il dramma dei migranti in Polonia

È il suo primo film da regista. Non proprio una passeggiata, andare lungo un confine pattugliato dalla polizia, con una "zona rossa" alla quale nessuno può avvicinarsi. "L’ho sentito necessario. Quando vedi un incidente in strada, cerchi di prestare aiuto, come puoi. Non stai a chiederti troppe cose. E così ho fatto io: ho cercato di dare il mio contributo. Anche se non sono un medico, un avvocato, un politico. Sono solo un’attrice, conosco la forza delle immagini: e ho provato a comunicare questa storia a chi non potrebbe vederla, non potrebbe conoscerla". Che sentimenti prova verso il suo Paese, la Polonia, che da una parte accoglie tanti profughi ucraini e dall’altra impedisce l’ingresso di rifugiati dall’Est con un muro? "Ma il mio film non è rivolto solo ai polacchi, non riguarda solo la Polonia. È tutta l’Europa che si sta comportando in questo modo: e anche in Italia mi sembra che l’atteggiamento verso i migranti non sia dei più benevoli. Penso anche all’ultimo progetto, quello di sistemarli in Albania". Questo è un momento molto importante per le donne nel cinema, nella comunicazione in generale. Che pensieri le suscita il successo del film di Paola Cortellesi? "Mi sembra che Paola sia, anche lei, una donna che si prende dei rischi per raccontare qualcosa di importante. È un momento molto interessante per le donne: e penso anche ad altre attrici che hanno realizzato i loro film. Penso, in generale, a tutte le donne che hanno coraggio".