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Home » Spettacolo » Rula Jebreal sull’Afghanistan: “In 20 anni fatto poco per le donne. Ora salviamo gli alleati”

Rula Jebreal sull’Afghanistan: “In 20 anni fatto poco per le donne. Ora salviamo gli alleati”

Secondo la scrittrice e giornalista palestinese la prima cosa da fare, per Stati Uniti e Unione Europea, è "salvare il salvabile", portando via le 100mila persone che in questi anni in Afghanistan "sono state nostre alleate"

Sofia Francioni
20 Agosto 2021
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“In vent’anni in Afghanistan” il primo presidente eletto Hamid Karzai (in carica dal 2004 al 2014) e il suo successore Ashraf Ghani “hanno fatto davvero poco per le donne.

Ha fatto molto di più Emergency del governo fantoccio pagato dagli Stati Uniti“, da sempre visto dagli afghani come “un abuso di potere, un governo illegittimo”. Rula Jebreal, giornalista e scrittrice palestinese, dà una lezione chiara dall’Afghanistan: il fallimento dell’approccio militaristico che “da solo non può garantire sicurezza, ma neanche un’evoluzione verso uno stato più democratico”, insieme a quello dell’unilateralismo.

Lo dichiara in diretta da New York alla trasmissione In Onda, su La7. “Dopo l’11 settembre comincio ad avvertire che queste guerre devono avere un altro approccio. Va bene un intervento armato, ma ci vuole anche un braccio diplomatico, un braccio di investimenti in strutture democratiche“. “Dopo Saigon, dopo il Vietnam, il governo è crollato in due anni. In Afghanistan”, conclude, “sono bastati 11 giorni”. “Se avessimo speso quei soldi, 2mila miliardi di dollari, per costruire istituzioni democratiche, avremo avuto risultati completamente diversi. A Washington ci sono tante persone, all’interno delle strutture e degli apparati della difesa, che per anni si sono arricchiti. E il risultato è zero”.

Secondo Rula Jebreal c’è una prima azione da mettere in agenda: prima del G20 l’Unione Europea e gli Usa hanno l’opportunità di “salvare il salvabile”, portando via le 100mila persone che in questi anni in Afghanistan “sono state nostre alleate: interpreti, attiviste, giornalisti, persone che possono aiutarci a capire chi sono adesso i talebani, cosa fare, come intervenire. Portiamoli via tutti, distribuiamoli tra i paesi Nato e aiutiamoli. Abbiamo l’obbligo morale di farlo: non sono gli invasori, sono i nostri alleati nella guerra contro il terrore”. Nel ’74, ricorda, “dopo il Vietnam, 130mila furono portate via: tra queste c’erano 20mila criminali e non entrarono mai negli Usa, ma le altre sì”.

I Talebani, dichiara la giornalista, in questo momento vogliono tre cose dall’Occidente: “cibo, legittimità internazionale e i soldi delle banche internazionali: possiamo sfruttare queste debolezze per salvare il salvabile”. E dopo il confronto con Saigon e il Vietnam, si concede un altro parallelismo: “Se l’alternativa ai Talebani è l’Arabia Saudita siamo messi male dato che le attiviste in Arabia Saudita vengono stuprate, flagellate, torturate e a dare questi ordini è l’alleato Usa, Mohammed Bin Salman. Com’è possibile? Nella democrazia o ci crediamo sempre o non ci crediamo”, conclude.

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Il protagonista di questa vicenda è Leonardo Lotto, studente aostano, che la mattina del 23 febbraio è rimasto vittima di un incidente in mare. Il ragazzo era a Melbourne con un gruppo di amici quando dopo un tuffo tra le onde sul bagnasciuga ha picchiato violentemente la testa contro il fondale di sabbia. In quel momento è iniziato l’incubo: prima gli amici lo hanno aiutato a uscire dall’acqua, poi la corsa disperata in ospedale. Dopo l’intervento d’urgenza, è arrivato il duro responso: “Frattura delle vertebre C3 e C5, spina dorsale danneggiata". Leonardo Lotto è paralizzato dalla testa in giù e non potrà più camminare.

"Continuerò a lottare e farò tutto il necessario. A volte cadrò, ma alla fine mi rialzerò, vivendo sempre giorno per giorno, superando i momenti più bui”.

Dopo il ricovero all’Alfred Hospital di Melbourne, in Australia, “le sue condizioni sono stabili, e ora è pronto per iniziare il suo lungo percorso riabilitativo a Milano con tutte le energie e la positività che hanno sempre caratterizzato la sua personalità”. E gli amici, proprio per sostenere le cure, hanno organizzato una raccolta fondi online.

✍ Barbara Berti 

#lucenews #lucelanazione #australia #leonardolotto
  • È quanto emerge da uno studio su 1.700 ragazzi toscani realizzato dal Meyer center for health and happiness, di cui è responsabile Manila Bonciani, insieme all’Università di Firenze, e presentato in occasione della Giornata internazionale della felicità nel corso di un evento organizzato al Meyer health campus di Firenze.

Cosa gli adolescenti pensano della felicità? Come la definiscono? Cosa li rende felici? Queste alcune domande dello studio. Dai risultati emerge che i ragazzi spesso non riescono a dare neanche una definizione della felicità. Tuttavia ne sottolineano la rilevanza e la transitorietà. 

Dalla ricerca emerge così che la manifestazione della felicità si declina in sei dimensioni:
➡ La più rilevante che emerge è quella dell’interesse sociale, data dall’importanza che viene attribuita dai ragazzi alle relazioni interpersonali.
➡ La seconda è l’espressione della soddisfazione verso la propria vita, del fare le cose che piacciono loro.
➡ La terza è vivere emozioni positive, rilevanza che si riscontra anche nelle parole dei ragazzi che esprimono in maniera importante l’idea di essere felici quando sono senza preoccupazioni o pressioni che avvertono frequentemente, come anche quella scolastica.
➡ La quarta è il senso di autorealizzazione insieme a quello di padronanza delle varie situazioni che si trovano ad affrontare.
➡ Infine in misura minore la loro felicità è legata all’ottimismo, cui gli stessi adolescenti non attribuiscono grande rilevanza, sebbene rappresenti la sesta dimensione della felicità identificata.

Gli adolescenti che risultano più felici si caratterizzano per essere più empatici, esprimere un atteggiamento cooperativo, avere maggiore autoconsapevolezza, saper gestire meglio le emozioni e risolvere le situazioni problematiche, avere una buona immagine di sé. 

Ancora i maschi risultano essere più felici delle femmine a eccezione della dimensione relazionale e sociale della felicità che non si differenzia in maniera significativa tra i due gruppi, e le fasce di età più piccole, fino ai 15 anni, esprimono maggiormente di essere felici rispetto ai ragazzi di 16-17 o maggiorenni.

#felicità #ospedalemeyer #adolescenza
"In vent'anni in Afghanistan" il primo presidente eletto Hamid Karzai (in carica dal 2004 al 2014) e il suo successore Ashraf Ghani "hanno fatto davvero poco per le donne. Ha fatto molto di più Emergency del governo fantoccio pagato dagli Stati Uniti", da sempre visto dagli afghani come "un abuso di potere, un governo illegittimo". Rula Jebreal, giornalista e scrittrice palestinese, dà una lezione chiara dall’Afghanistan: il fallimento dell’approccio militaristico che "da solo non può garantire sicurezza, ma neanche un’evoluzione verso uno stato più democratico", insieme a quello dell’unilateralismo. Lo dichiara in diretta da New York alla trasmissione In Onda, su La7. "Dopo l’11 settembre comincio ad avvertire che queste guerre devono avere un altro approccio. Va bene un intervento armato, ma ci vuole anche un braccio diplomatico, un braccio di investimenti in strutture democratiche". "Dopo Saigon, dopo il Vietnam, il governo è crollato in due anni. In Afghanistan", conclude, "sono bastati 11 giorni". "Se avessimo speso quei soldi, 2mila miliardi di dollari, per costruire istituzioni democratiche, avremo avuto risultati completamente diversi. A Washington ci sono tante persone, all’interno delle strutture e degli apparati della difesa, che per anni si sono arricchiti. E il risultato è zero". Secondo Rula Jebreal c’è una prima azione da mettere in agenda: prima del G20 l’Unione Europea e gli Usa hanno l’opportunità di “salvare il salvabile", portando via le 100mila persone che in questi anni in Afghanistan "sono state nostre alleate: interpreti, attiviste, giornalisti, persone che possono aiutarci a capire chi sono adesso i talebani, cosa fare, come intervenire. Portiamoli via tutti, distribuiamoli tra i paesi Nato e aiutiamoli. Abbiamo l’obbligo morale di farlo: non sono gli invasori, sono i nostri alleati nella guerra contro il terrore". Nel ’74, ricorda, "dopo il Vietnam, 130mila furono portate via: tra queste c’erano 20mila criminali e non entrarono mai negli Usa, ma le altre sì”. I Talebani, dichiara la giornalista, in questo momento vogliono tre cose dall’Occidente: "cibo, legittimità internazionale e i soldi delle banche internazionali: possiamo sfruttare queste debolezze per salvare il salvabile". E dopo il confronto con Saigon e il Vietnam, si concede un altro parallelismo: "Se l’alternativa ai Talebani è l’Arabia Saudita siamo messi male dato che le attiviste in Arabia Saudita vengono stuprate, flagellate, torturate e a dare questi ordini è l’alleato Usa, Mohammed Bin Salman. Com’è possibile? Nella democrazia o ci crediamo sempre o non ci crediamo", conclude.
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