Quello a Betlemme non sarà un Natale come tutti gli altri. Nel luogo in cui ogni anno si recano centinaia di migliaia di pellegrini da ogni angolo del mondo, l’atmosfera è surreale, quasi apocalittica. Nulla che richiami le festività. Niente addobbi, comete, simboli, luci.
La guerra ferma il Natale
Hebron road, la strada che collega Gerusalemme a Betlemme è una lingua d’asfalto fredda, semi-vuota, costellata di check-point presidiati dall’esercito israeliano. L’Autorità nazionale palestinese (Anp), con l’accordo delle Chiese cristiane, ha letteralmente spento il Natale, lanciando un grido di allarme silenzioso ma fortissimo: basta morti a Gaza. Una decisione mai presa prima, neanche in tempo di pandemia. In una Cisgiordania blindata, dai cui check-point hanno la possibilità di passare - con l’obbligo di rientrare entro le sette di sera - solo poche centinaia di persone autorizzate tra cui medici, insegnanti e funzionari religiosi, il tempo sembra essersi fermato alla disperata ricerca della Pace. In occasione della Messa nella Basilica della Natività il coprifuoco è stato posticipato per permettere ai cristiani di partecipare alle celebrazioni. Unico accesso ancora libero è quello di Il-Nashash, raggiungibile girando intorno al muro e pressoché vuoto. Un’assenza dal rumore assordante, che prende il posto dei circa quindicimila visitatori al giorno che durante le festività sono soliti affollare i luoghi in cui si dice abbia visto per la prima volta la luce Gesù di Nazareth. Un’azione simbolica in risposta alle ormai più di ventimila vittime, agli oltre cinquantamila feriti e all’emergenza umanitaria sempre più tragicamente preoccupante che, con le bombe, sta devastando ciò che resta di Gaza. A Betlemme, i cristiani rappresentano solo il 18% dell’intera popolazione. Il Natale, più che un evento di natura religiosa, è una tradizione oltre che - a tutti gli effetti - una fonte di reddito. Basti pensare che in questa cittadina che conta circa quarantamila anime anche gli islamici hanno fatto propria l’abitudine dell’albero di Natale tanto da praticarla addirittura nel campo profughi Aida in cui le famiglie di fede cristiana sono poco più di dieci. Quest’anno, gli alberi non sono stati addobbati neanche nelle case dei cristiani. Lo sgomento è fortissimo. Il futuro è incerto e, oltre ai morti di Gaza, a non far dormire la notte è la paura per ciò che verrà. Il blocco dei permessi di lavoro per Israele ha gettato nella disperazione moltissime famiglie. A ciò si aggiunge la crisi nera del settore del commercio.Il centro storico di Betlemme è fantasma
I negozi su Milk Grotto street, la strada che costeggia la Basilica della Natività, hanno tutti la saracinesca abbassata. Ristoranti, hotel, negozi, botteghe: tutto spento, chiuso, vuoto, sbarrato. In un territorio in cui un terzo dell’economia è legata al turismo, circa seimila persone dal 7 ottobre a oggi hanno perso il lavoro. Una tragedia nella tragedia. Anche la Chiesa in cui si trova la mangiatoia - che, secondo i Vangeli, ospitò Gesù alla nascita - è chiusa per mancanza di fedeli. Unica apertura quella in occasione della processione guidata dal patriarca, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, accompagnato dall’inviato di Papa Francesco, il cardinale Konrad Krajewski. Israele sta soffocando Betlemme, impedendo di fatto ogni genere di libertà, tra blocchi, raid, arresti e distruzione.In piazza della Mangiatoia, al posto dell’albero allestito dal 1994, l’artista cristiano Tariq Salsa ha realizzato un presepe che non lascia spazio a libere interpretazioni: Gesù avvolto in un panno bianco in braccio a Maria tra le rovine di una casa, Giuseppe a consolarla, negli occhi la fuga dalla furia di Erode. Una scultura che si stringe simbolicamente attorno a Gaza e ha l’obiettivo di accendere cuori e coscienze da Nord a Sud, da Est a Ovest, governanti compresi. Che si abbia o meno fede, la storia di Gesù è quella di un uomo per sempre dalla parte degli oppressi. La sua storia sia, per Israele e per il mondo intero, faro e non scudo.Visualizza questo post su Instagram