Trent'anni fa ha reso pubblica la sua tremenda storia di
rapimento, stupro e prostituzione forzata da parte dell'esercito giapponese nella
Corea del Sud occupata militarmente. Da quel momento non ha mai più taciuto, ma ha portato il suo terribile racconto in giro per il mondo. Oggi però, ormai molto anziana, Lee Yong-soo teme di non avere più tempo per chiudere la sua vicenda.
Lee Yong-soo è stata una Comfort women, vere e proprie schiave sessuali delle truppe imperiali giapponesi durante l'occupazione in Corea del Sud
Alla veneranda età di 93 anni l'attivista dà il volto a un gruppo sempre più esiguo (sono ormai solo nove) di
sopravvissuti alla schiavitù sessuale in Corea del Sud, che dall'inizio degli anni Novanta chiede al governo giapponese di ammettere la propria colpa e di presentare scuse sincere e inequivocabili.
Le Comfort Women coreane
Decine di migliaia di ragazze – gli storici stimano
tra le 30mila e le 200mila – poco più che bambine a volte, - filippine, cinesi, indonesiane, rapite e costrette a prostituirsi nei bordelli della Corea del Sud per soddisfare i soldati imperiali nipponici durante gli anni dell'occupazione, dal 1910 al 1945. Operavano nelle 'stazioni di conforto' sparse in tutto il Pacifico e per questo le chiamavano Comfort Women, un aggettivo agghiacciante: il compito di confortare le truppe le rendeva infatti vere e proprie schiave sessuali. In questi anni Lee Yong-soo ha girato in lungo e in largo l'Asia per raccogliere le testimonianze di tante, troppe altre donne come lei, per poi avanzare cause nei aule di giustizia sudcoreane e giapponesi. Quando sta bene e si sente forma va a manifestare davanti all'ambasciata nipponica a Seul, dove sorgono le simboliche statue che raffigurano proprio lei e queste ragazze che hanno vissuto l'incubo, nell'installazione chiamata "Statue per la Pace".
L'ex schiava sessuale Lee Yong-soo in mezzo alle Statue della Pace, raffiguranti un gruppo di Comfort women. Le sculture sono esposte davanti all'ambasciata del Giappone a Seoul
L'ultima missione
Lee Yong-soo, che all'inizio degli anni novanta ha denunciato pubblicamente quel periodo buio nel suo passato, oggi non si vuole arrendere all'insensibilità della diplomazia giapponese e nonostante lo scorrere inesorabile del tempo renda questa sua battaglia sempre più difficile. La sua ultima - e forse definitiva - impresa è quella di convincere i governi della Corea del Sud e del Giappone a
risolvere la loro decennale impasse sulla schiavitù sessuale chiedendo giustizia alle Nazioni Unite.
Lee Yong-soo durante la cerimonia di inaugurazione delle statue in onore delle "Comfort women"
Lee è a capo del gruppo internazionale di sopravvissuti che la scorsa settimana ha inviato una richiesta agli ispettori dell'Onu per
i diritti umani affinché Seul e Tokyo si rivolgano congiuntamente alla
Corte internazionale di giustizia dell'Aja. Il gruppo vuole anche che il governo coreano avvii una procedura di arbitrato contro il Giappone se Tokyo non accetterà di portare il caso di fronte agli esperti. Per la 93enne è difficile essere paziente quando intorno a lei i sopravvissuti continuano a morire. Si preoccupa poi che la loro vicenda venga
dimenticata o distorta dagli evidenti sforzi del Giappone di minimizzare la natura coercitiva e violenta della schiavitù sessuale della Seconda Guerra Mondiale e di escluderla dai libri di scuola.
Il ricordo dell'attivista
Lee ha pianto mentre descriveva come fu
trascinata via da casa quando aveva 16 anni per servire come schiava sessuale l'Esercito Imperiale Giapponese, e i pesanti abusi che subì in un
bordello militare nipponico a Taiwan fino alla fine della guerra, storia che ha rivelato per la prima volta al mondo solo nel 1992. "La mia famiglia aveva un piccolo terreno, coltivavamo riso, ma gli occupanti giapponesi si portavano via tutto. Una sera di ottobre del 1943 portarono via anche me – ricorda –. Dormivo sempre con mia madre, ma quel giorno lei non c’era. Sentii un rumore, fuori dalla finestra vidi una ragazza che mi faceva il gesto di uscire e raggiungerla. Pensavo volesse giocare. Mi mise una mano sulla spalla e l’altra sulla bocca, a quel punto arrivò un militare che mi puntò un’arma dietro la schiena e mi disse di iniziare a camminare. Quell’uomo aveva usato
la ragazza come esca per rapirmi. Arrivai sotto ad un ponte, dove c’erano altre 4 donne e 2 soldati. Ci diedero vestiti e scarpe e ci portarono alla stazione: era la prima volta che prendevo il treno, continuavo a pensare fosse un gioco, non capivo".
Lee Yong-soo è a capo del gruppo di sopravvissute e chiede oggi che si risolva l'impasse tra Seoul e Tokyo sulla questione, davanti alla Corte di Giustizia Internazionale
E invece? "Appena salita un soldato iniziò a picchiarmi, in testa: quei colpi li sento ancora oggi. Mi prese a calci, mi chiamava ‘feccia coreana’.
Non era un gioco, ma ancora non capivo". "Sia la Corea del Sud che il Giappone continuano ad aspettare la nostra morte, ma io combatterò fino alla fine", ha dichiarato Lee in una recente intervista presso l'ufficio dell'Associated Press a Seoul, di fronte all'ambasciata giapponese. "Penso che
il tempo mi abbia aspettato per poter stringere i denti e fare tutto il possibile per risolvere la questione", ha detto Lee.