Il “Martire del servizio” come l’hanno definito le autorità di Teheran o lo spietato “macellaio” degli oppositori politici? Il “fratello” di molti regimi (come la Russia di Putin), il “protettore dei movimenti di resistenza” secondo il movimento sciita libanese Hezbollah, e l’intransigente ultraconservatore che ha sedato nel sangue le proteste dopo la morte di Mahsa Amini. Il giudice e il politico, l’ayatollah destinato a succedere alla Guida Suprema Khamenei e il politologo estremista della Repubblica Islamica.
Ma chi era davvero il presidente dell’Iran, Ebrahim Raisi, morto domenica 19 maggio in un incidente in elicottero mentre era in visita nel vicino Azerbaigian?
Nato nel 1960 a Mashad, la seconda città più importante del Paese, Sayyid Ebrahim Raisol-Sadati, conosciuto semplicemente come Ebrahim Raisi è stato un politico e magistrato iraniano, ottavo presidente dell'Iran dal 3 agosto 2021.
Sposato con una docente universitaria, Jamileh Alamolhoda (pensare che invece sotto il suo regime le donne sono tornate indietro di decenni quanto a diritti e libertà di affermazione, ndr) e padre di due figlie, era il genero dell’influente guida della preghiera del venerdì a Mashad, l’ayatollah Ahmad Alamolhoda. Ultraconservatore, inflessibile tutore del regime islamico, durante la sua presidenza si è distinto per il pugno di ferro utilizzato contro i manifestanti che al grido di “Donna vita libertà” rivendicavano i diritti femminili cancellati e denunciavano le nefandezze compiute dalle autorità iraniane per reprimere qualsiasi forma di dissenso.
L’ascesa di Raisi
Studente di teologia e giurisprudenza islamica, laureato in diritto islamico all'Università Motahari di Teheran, il suo nome è associato indissolubilmente al cosiddetto ‘comitato della morte’, lo speciale tribunale voluto dall’ayatollah Khomeini nel 1988 per processare gli oppositori politici alla fine della guerra con l'Iraq. I principali obiettivi erano i membri dei Mujaheddin del popolo iraniano e i prigionieri politici di altre organizzazioni di sinistra, che finirono al patibolo per volere dei 4 personaggi che facevano parte di questa commissione. Le uccisioni, definite “un atto di violenza senza precedenti nella storia iraniana” furono migliaia: le stime variano da un minimo di 8.000 a un massimo di 30mila. Per questo episodio e per altre violazioni dei diritti umani nel 2019 fu messo sotto sanzioni dagli Stati Uniti. Intervistato su queste purghe dopo le elezioni che lo portarono a Capo del Paese, Raisi negò qualsiasi coinvolgimento, sostenendo anzi di aver “sempre” difeso i “diritti umani”.
Nel 1981, a 20 anni, iniziò la sua carriera con la nomina a procuratore di Karaj ed in seguito anche di Hamadan. Nel 1985 divenne vice-procuratore di Teheran. Fu guida della Procura nella capitale dal 1989 al 1994, vice capo della magistratura dal 2004 al 2014, poi procuratore generale fino 2016, quando venne messo da Khamenei a capo della Astan Quds Razavi, una delle più grandi fondazioni religiose del Paese.
Tre anni dopo divenne capo della magistratura iraniana, carica che ha mantenuto fino all’agosto 2021, quando è diventato presidente dell’Iran dopo aver vinto al primo turno le elezioni del 18 giugno, ricordate tra le altre cose come quelle con la più bassa affluenza alle urne della storia della Repubblica Islamica.
L’ultraconservatore che reprime il dissenso nel sangue
La sua politica è stata improntata quasi ossessivamente al mantenimento della sicurezza interna e su un incremento delle spese per la difesa estera (con lo scoppio della guerra in Medio Oriente c’è stato però anche il primo scontro diretto con l’arcinemico israeliano lo scorso aprile), evitando invece di preoccuparsi – se non a scoppio ritardato, quando ormai la miccia della rivolta era stata accesa – dei problemi sociali ed economici della società iraniana.
L’episodio forse più clamoroso per cui verrà ricordato, dopo appunto la sua partecipazione alla commissione della morte di Khomeini che gli valse l’appellativo di ‘macellaio’, è stata la morte della 22enne curda Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale iraniana nel settembre 2022: da quel momento è letteralmente dilagata l’ondata di proteste nel Paese a cui ha fatto eco la partecipazione internazionale alla questione sociale e soprattutto delle donne. Raisi ha risposto con un ulteriore irrigidimento dell’ordine pubblico, imponendo dure condizioni di vita alle cittadine iraniane: dall’obbligo del velo in qualsiasi contesto pubblico – pena durissime condanne alla reclusione o a pene fisiche – fino all’avvelenamento di intere classi di alunne per scoraggiare la loro istruzione. Per non parlare della lunga serie di condanne a morte contro tutti quelli che vengono considerati oppositori del regime anche solo per un post, una canzone o un capello fuori posto.
Sotto Ebrahim Raisi, inoltre, l’Iran aveva anche ripreso il programma nucleare militare, dopo il ritiro degli Stati Uniti dallo storico accordo del 2015 che limitava le possibilità per il Paese mediorientale di sviluppare la tecnologia per la creazione di un’arma nucleare in cambio della rimozione di alcune sanzioni internazionali imposte sull’economia locale. Una ripresa – di nuovo – ufficialmente sempre negata dal presidente, bloccando così ogni possibile ispezione internazionale. In politica estera aveva intensificato i rapporti commerciali e la collaborazione con Russia e Cina e ristabilito rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita. Paesi (o meglio regimi, soprattutto il primo e il terzo) noti per la propria spregiudicatezza nel mantenimento di uno status quo politico e sociale estremista, conservatore, radicale contro tutto ciò che non rientra nella tradizione (ne sa qualcosa la comunità Lgbtq+, perseguitata in questi Stati) di cui fanno le spese milioni di persone.