Babajé, il richiamo dei bambini invisibili che ha convinto un italiano molto speciale a dedicare la sua vita agli orfani del Tigrai

Romano, classe 1970, una carriera avviata come commercialista e poi la decisione di stravolgere la propria vita e creare un villaggio-orfanotrofio in Etiopia. La storia di Francesco Romagnoli diventa un libro

di DOMENICO GUARINO
23 febbraio 2025
Francesco Romagnoli con alcuni dei bambini ospiti del suo centro

Francesco Romagnoli con alcuni dei bambini ospiti del suo centro

Trentadue anni, la laurea in economia e commercio, l'impiego nello studio del padre. E poi, un giorno, la decisione di cambiare completamente vita e di dedicarsi ai bambini orfani in un Paese straniero lontano migliaia di chilometri. Sembra una favola (o una leggenda) e invece è la storia vera di Francesco Romagnoli, classe 1970, romano di Roma nord, professionista avviato alla carriera, che, nel 2002 , a seguito di un soggiorno di un mese nel Corno d’Africa, decide di rimanere in Etiopia, vicino ad Adua, nella regione del Tigrai, dove realizza “James non morirà”, un villaggio-orfanotrofio, con un feeding centre per combattere la denutrizione cronica dell’area. Piano piano il villaggio si allarga e oggi contiene un punto di primo soccorso, diverse cooperative di donne hanno trovato lavoro ora come mamies ora come tessitrici, mentre gli uomini sono stati assunti come infermieri, guardie o medici.

Oggi la storia di Francesco è anche un libro “Babajé. Il richiamo dei bambini invisibili” (Gremese 2022, pp. 208, € 14,90). "Babajé" nella lingua parlata in Etiopia vuol dire “papà mio”, che poi è è il grido di gioia che lo accoglie ogni volta che rientra. Con Francesco abbiamo parlato del libro e della sua esperienza.

Come nasce l'idea del villaggio?

“Nasce dal rendermi conto che quello che stavo facendo, cioè il commercialista nello studio di famiglia, non era quello che volevo e che faceva per me. Allora durante una vacanza sono finito sulle colline del Tigrai al nord dell' Etiopia al confine con l'Eritrea, quindi una zona molto complicata dal punto di vista non solo geografico e climatico ma anche politico. Sono arrivato per fare un'esperienza di volontariato che doveva durare un mese e sono rimasto 25 anni, creando quello che penso sia il più bel villaggio per bambini di tutta l'Africa che accoglie bambini orfani, in difficoltà, denutriti”.

Ma perché ha sentito questa esigenza di impegnarsi un questo progetto in una zona che, come diceva lei stesso, ha problematiche di ogni tipo, non ultima quella della sicurezza?

“In realtà quando sono arrivato per questa vacanza che era anche un'esperienza di volontariato, non avevo certo idea di cosa avrei fatto. Poi il caso ha voluto che incontrassi una prima bambina (dei 128 che dopo di lei sono stati accolti) l'ho presa con me e da lì mi sono reso conto del problema enorme degli orfani, bambini che avevano perso i genitori a causa di malattie, della guerra, della carestia, e che erano letteralmente abbandonati al loro destino. Lei è stata la scintilla che è scoccata che mi ha fatto intraprendere questo viaggio bellissimo, che dura ancora oggi, per dare speranza e futuro a dei bambini che non avrebbero altre possibilità”. 

Che situazione c'è ora in Tigrai?

"Difficile. La guerra per fortuna è finita. Poco tempo fa è stato siglato un trattato di pace, ma la situazione generale è ancora molto complicata. Possiamo dire che gli effetti a lungo termine della guerra sono peggiori di quelli immediati. E non credo che le cose miglioreranno nel prossimo futuro. Siamo tornati indietro 50 anni in una zona che non aveva certo bisogno di questo. E le previsioni non sono buone. Tuttavia siamo sopravvissuti tutti alla guerra, e non era scontato. Quindi cerchiamo di essere siamo positivi”.

Come si finanziano i progetti?

“Attraverso un'associazione, ‘James non morirà’: chi volesse partecipare può partire dal sito o dai social per avere informazioni, o può comprare il libro che serve a finanziare i progetti e trasmettere il messaggio che vogliamo trasmettere: raccontare le cose belle che si possono fare e non solo quelle brutte”.

Cosa considera casa, lei? Il Tigrai o l'Italia?

“È una domanda complicata, mi riservo di non rispondere. Devo dire comunque che in Etiopia, nonostante tutto, gli italiani sono visti come delle brave persone. Siamo benvoluti e devo dire anche amati. Non siamo ricordati per le cose brutte, ma per quelle belle che abbiamo fatto”.