Ritorno al lavoro e Boreout: gli italiani tra i più insoddisfatti d’Europa

Con la mente ancora alle ferie: il 46% si dichiara stressato e una persona su quattro prova disagio per la propria condizione lavorativa. Urgono soluzioni per rendere il lavoro un’esperienza umana oltre che produttiva

di MARGHERITA AMBROGETTI DAMIANI
16 settembre 2024
Boreout-Freepik

Cos'è il "boreout"?

Come ogni anno, settembre ha portato con sé quel misto di nostalgia e speranza per il futuro che ogni fine dell’estate lascia in eredità. Per molte e molti, questo periodo dell’anno non è solo il momento di rimettere capo alle faccende lavorative, ma anche di fermarsi a riflettere e pensare al futuro. Con la mente ai giorni spensierati delle ferie, le domande su cosa significhi davvero tornare alla routine quotidiana affollano la mente. Settembre diventa così una sorta di nuovo inizio, un capodanno simbolico durante il quale ci si guarda indietro per fare il punto della situazione e, talvolta, si pensa al futuro con uno sguardo critico.

Tra queste riflessioni, una domanda martella la mente più delle altre: cosa rappresenta il lavoro nella nostra vita? Sono sempre di più le persone che si interrogano sul proprio rapporto con il lavoro e non senza motivo. La ripetitività delle giornate, la mancanza di motivazione e il senso di insoddisfazione che tanti provano tornando ai propri doveri sono infatti sintomi di una crisi più profonda. I risultati di uno studio condotto da Gallup fanno tremare i polsi. Stando all’analisi, solo l’8% dei lavoratori italiani si sente davvero stimolato dal proprio ambiente di lavoro. Una percentuale che piazza l’Italia tra i Paesi meno soddisfatti sotto il profilo professionale in Europa. A farci compagnia anche Francia e Lussemburgo.

Ma cosa significa essere stimolati dal proprio lavoro? Se state pensando che l’eldorado sia rappresentato dal portare a termine i propri compiti o rispettare le scadenze, siete lontani dalla verità. Per essere felici di lavorare serve riuscire a dare un senso a quello che si fa. Peccato che alla stragrande maggioranza questo senso sembri sfuggire, generando un sempre crescente malessere non solo sul piano professionale, ma anche personale.

Burnout e boreout

Non a caso, negli ultimi anni si è parlato spesso di burnout, la sindrome legata allo stress lavorativo che porta all’esaurimento emotivo e fisico. Al suo fianco ne cammina una meno nota, ma altrettanto dannosa: il boreout. Mentre il burnout colpisce chi è sovraccarico di compiti e responsabilità, il boreout si manifesta in chi si annoia sul lavoro, spesso a causa di mansioni ripetitive o della mancanza di sfide. Una sensazione di inutilità e apatia che, se prolungata, può rivelarsi altrettanto devastante, generando conseguenze disastrose sul piano mentale ed emotivo.

IIl 41% degli italiani è in cerca di un nuovo lavoro

Stando a quanto ci dicono i dati di Gallup, il 46% dei lavoratori italiani è stressato e una persona su quattro prova addirittura una profonda tristezza generata dalla condizione lavorativa. Un disagio dalle molteplici cause: ambienti di lavoro tossici, mancanza di valorizzazione, cattiva gestione aziendale e una cultura che spesso glorifica l’essere sempre occupati e produttivi, a discapito del benessere individuale.

Un malessere che irrimediabilmente si riflette in una crescente tendenza a cambiare lavoro. Secondo Gallup, il 41% dei lavoratori italiani è attualmente alla ricerca di una nuova occupazione. Un dato allarmante che evidenzia come, per tante e tanti, la via di fuga dalla frustrazione non sia rappresentata da un cambiamento interno all’azienda, quanto piuttosto da una vera e propria rottura con il passato professionale.

Il cambiamento di lavoro, però, non sempre è una risposta efficace. In molti casi, i problemi che si affrontano non dipendono solo dal tipo di occupazione o dall'azienda in cui si lavora, ma da un più ampio disallineamento tra le proprie aspirazioni personali e le aspettative sociali legate alla carriera. Questo porta a un ciclo senza fine: si cambia lavoro, ma il malessere resta.

Il post pandemia

Tuttavia, qualcosa sta cambiando. La pandemia ha costretto molte persone a riconsiderare il rapporto con il proprio lavoro, facendo ordine nella scala di priorità. Il tempo trascorso lontano dagli impegni lavorativi e la diffusione dello smart working hanno fatto emergere nuove domande: il lavoro - per come lo conosciamo e interpretiamo - è davvero l’asse portante della vita di un essere umano?

Considerare il lavoro una fonte esclusiva di stabilità economica sta passando di moda, cedendo il passo a un desiderio sempre più profondo di realizzazione personale. Le persone non vogliono più semplicemente “lavorare per vivere”, ma trovare nel lavoro uno spazio di crescita e soddisfazione personale.

Tutto ciò avviene in un contesto sociale e culturale che ha glorificato il concetto di successo professionale. Per decenni, il valore di una persona è stato legato alla sua capacità di fare carriera, guadagnare, raggiungere posizioni di potere. Un modello che oggi inizia a mostrare crepe soprattutto tra i più giovani. Vedere il lavoro come il principale indicatore di status e identità è un approccio non più sostenibile. Per raddrizzare la rotta, serve che le aziende e la politica inizino a individuare soluzioni innovative per rendere il lavoro un’esperienza umana oltre che produttiva.

L’auspicio è che l’autunno in corso possa rappresentare l’opportunità giusta per dare forma a una visione del lavoro più in linea con le necessità degli esseri umani. L’insoddisfazione non deve essere ignorata, ma vista come un campanello d’allarme. Un invito a riflettere sul significato del nostro tempo, delle nostre energie e delle scelte che facciamo ogni giorno, coinvolgendo tutte le parti - da quelle sindacali al settore delle professioniste e dei professionisti della salute mentale - in un dialogo collettivo attraverso cui individuare la strada giusta da seguire.