Affidi: allontanata da casa a 14 anni, oggi aiuta i minori “complessi” a trovare una casa

Karin Falconi, mediatrice familiare dell'Associazione M'aMa (per la tutela dei minori attraverso affidi e adozioni) racconta un vissuto adolescenziale straordinario. E presenta il suo libro “Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma”

di CATERINA CECCUTI -
19 novembre 2023

Niente spaventa una famiglia affidataria più di un adolescente, neanche un bambino piccolo con gravi disabilità”. 

Mai e poi mai, parlando con Karin Falconi - mediatrice familiare e professional counselor dell'Associazione M'aMA per la tutela dei diritti dei minori attraverso affidi e adozioni - avrei potuto immaginare lo stra-ordinario background adolescenziale che nasconde dietro la placidità delle sue parole, mentre con ironia e acume analizza situazioni tragicomiche del proprio passato per meglio farmi comprendere la drammatica condizione che tutt'oggi affligge gli adolescenti provenienti da famiglie “disfunzionali”.

affidi-minori-mamma-falconi

“Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma. Cronaca di un affido sine die”

È il suo libro, pubblicato da Edizioni Lavori e Avagliano Editore, che verrà presentato oggi, 19 novembre, a alle 17, al Caffè Letterario di via Ostiense, alla presenza di Emilia Russo - presidente M'aMa - e dei due ospiti d'onore Maria René (17 anni) e Stefano (18 anni), che racconteranno le loro storie di affido.

Locandina Stampa 19 Novembre “Secondo i dati raccolti nel 2022 dall'Autorità Garante per l'Infanzia e l'Adolescenza - commenta la dottoressa Falconi - sono 23mila i minori in comunità (di età compresa tra i 14 e i 17 anni) relativi al triennio 2018-2020. Troppi. Gli adolescenti hanno diritto a vivere in famiglia: io a 14 anni me le sono dovute andare a cercare da sola le famiglie che mi aprissero le porte; questi ragazzini, invece, paradossalmente sono già sotto la tutela dello Stato e dovrebbero avere una lista di attesa ad aspettarli, ma così non è. Qualcosa non funziona. “Non vi ho chiesto di chiamarmi mamma” non è solo un libro, ma una vera e propria campagna itinerante di sensibilizzazione all'affido portata avanti da noi MammeMatte (www.mammematte.com) insieme a tante testimonianze di adolescenti coraggiosi.” affidi-minori-mamma-falconi

A tu per tu con Karin Falconi

Dottoressa Falconi, come mai è così difficile prendere in affido un adolescente? “Beh, diciamo che dai dieci anni in su le cose si complicano un po'. Nel corso degli anni, con l'esperienza maturata sul campo di un'associazione che si occupa di affidi con bisogni speciali, abbiamo scoperto che la caratteristica che maggiormente spaventa i genitori affidatari è proprio legata all'età. Paradossalmente, un bambino piccolo con una grave disabilità spaventa meno di un adolescente. Il commento che ci sentiamo fare più spesso dai genitori affidatari è “A quest'età non è più plasmabile”, intendendo che il ragazzo o la ragazza arrivano ormai con un proprio vissuto alle spalle e che quindi “Il loro carattere non si cambia, sicuramente non si affezioneranno, non ci riconosceranno mai come mamma e come papà”. In questo caso la famiglia affidataria dimentica il fatto che si tratta di un affido, non di un'adozione. In sostanza, l'aspettativa è bassa e nell'immaginario collettivo un adolescente con un vissuto problematico è una persona nervosa, instabile, che quando varca la soglia ti sfascia la casa e ti fa sentire inadeguato.” Invece non è così? “Non posso dire di no, ma riflettendoci anche un figlio biologico che attraversa l'adolescenza ti fa sentire inadeguato; la differenza è che con un minore già grandicello preso in affido non hai potuto costruire quel background di intimità che rende la cosa più sopportabile, o comunque meno dolorosa.”

Non lasciare sole le famiglie affidatarie

Qual è dunque il suo consiglio per uscire da questa impasse? “Bisogna prima di tutto cambiare almeno un paio di cose. In primis deve essere fatto un lavoro di preparazione delle famiglie, in modo che vengano formate ad accogliere minori grandicelli. Successivamente all'arrivo, le famiglie dovrebbero essere affiancate obbligatoriamente almeno per il primo anno, perché anche quelle che pensano di farcela da sole in realtà non ce la fanno: non basta l'amore, in questi casi, serve una rete di professionisti di supporto. D'altro canto, però, anche il minore stesso deve essere preparato al grande salto: passare dalla vita in comunità alla vita in una famiglia affidataria significa acquisire una nuova forma di libertà individuale, ma anche sottostare a regole diverse e imparare a portare rispetto a figure di riferimento differenti, non più gli educatori ma i genitori affidatari. Il ragazzo o la ragazza, dunque, non deve essere “lanciato”, ma calato in una realtà diversa.” Veniamo a lei, Dottoressa, e alla sua incredibile storia personale. Che tipo di adolescente è stata? “Diciamo che ho vissuto non poche vicissitudini. A quattordici anni sono stata allontanata dai miei stessi familiari che, diciamo, avevano pure tratti a dir poco 'bizzarri' come figure genitoriali ai quali io stessa rispondevo con comportamenti che, se allora fossero stati valutati dai servizi sociali, sarebbero stati definiti come "oppositivo provocatori". Così, una volta che mi era stato vietato di rientrare a casa, mi ritrovai in mezzo ad una strada senza un posto dove andare a passare la notte. Cominciai a vagare, a bussare alle porte delle case dei miei compagni di classe. I miei amici, a loro volta, bussavano alle stanze dei genitori chiedendogli di ospitarmi. Riuscivo in questo modo a non tornare a casa per mesi.”

"Passata di famiglia in famiglia"

Ma come riusciva a convincere i genitori dei suoi amici a tenerla con sé? “Recitavo la mia parte, un canovaccio di auto commiserazione che ormai dicevo in automatico senza nessun dolore. 'Mamma mi ha sbattuto fuori, evidentemente non sta bene.' Alcune famiglie aprivano le braccia e mi tenevano con sé per un po'...un paio di giorni, una settimana. Quando la situazione iniziava a non essere più idilliaca me ne rendevo conto e capivo che era ora di andarmene. Passavo di famiglia in famiglia, informalmente, senza l'aiuto dei servizi sociali. Anzi, la cosa più incredibile è proprio il fatto che nessuno abbia mai avuto l'impulso di chiamare un assistente sociale e raccontare che stava ospitando in casa propria una ragazzina minorenne allontanata dalla famiglia di origine. Ovviamente, da parte mia non ho mai avuto voglia di andare dai carabinieri.”
affidi-minori-mamma-falconi

Karin Falconi insieme alla figlia presa in affido

Oggi lei è una donna con una posizione professionale e un background di studi completi alle spalle. Come è stato possibile? “Ho iniziato a lavorare prestissimo e sono stata aiutata da una famiglia in particolare, quella di una mia carissima amica, che tutt'ora considero una sorella e che a suo tempo mi ha accolto e dato la spinta per realizzarmi. Niente di formale, intendiamoci, non sono stata adottata né presa in affido. Ma questa famiglia, con la quale ho trascorso due anni, mi ha trasmesso valori e spronato a continuare gli studi. Iniziai a lavorare come babysitter mentre ancora studiavo al liceo. Durante l'estate facevo la tata a tempo pieno per tre mesi, mentre nel corso dell'anno scolastico lavoravo di pomeriggio.” Prima ha detto di essere stata una ragazzina problematica mentre viveva ancora con la famiglia di origine. Quando si trovava ospite delle altre famiglie come si comportava? “Molto bene. Ero adeguata, serenissima. Avevo bisogno di qualcuno che si occupasse di me. Cercavo il riconoscimento delle persone e per ottenerlo smorzavo i miei toni, cambiavo totalmente. Mai avrei risposto male, né mancato di rispetto a chi in quel momento mi dava una mano. Allo stesso tempo, però, non sono mai neppure riuscita a dire grazie, neanche alla famiglia che mi è stata più vicina.” Perché, secondo lei? “Come cerco di spiegare sempre ai genitori affidatari che si aspettano una qualche forma di ringraziamento, dire grazie è la cosa più difficile. Perché dietro a questa parola - che indubbiamente sarebbe bello manifestare in qualche modo - c'è tutto il peso del riconoscimento di essere stati abbandonati dalla propria famiglia. Ecco perché ad aspettarsi un ringraziamento si rimane delusi, così come rimarrà deluso quel genitore affidatario che non riuscirà a sentirsi mai chiamare “mamma” o “papà”. Perché dietro a quelle parole ci sono persone realmente esistite o che esistono ancora, ma che hanno rinunciato al loro ruolo abbandonando il proprio figlio ecc. Sono dunque parole con rimandi dolorosi, negativi”.

La voglia di aiutare gli altri

Lei ha fatto della sua esperienza personale una missione di vita per aiutare gli altri... “Sì, perché comprendo profondamente quelle stesse situazioni che io stessa ho vissuto in prima persona. Per me, in particolar modo, è assurdo che esistano tutte queste lungaggini burocratiche che impediscono ai minori di lasciare una casa famiglia e di essere presi in affido. Solo all'interno di una casa vera saranno in grado di costruire una realtà familiare e di comprendere come questa realtà funzioni, quando funziona per davvero. Probabilmente, se quando ero una ragazzina una delle famiglie che mi ha ospitata avesse avvisato i servizi sociali, sicuramente non sarei mai riuscita a lasciare la comunità, perché lì mi sarei comportata in maniera distruttiva e neanche avrebbero provato a cercarla una famiglia per me.” Per anni si è tenuta la sua storia dentro, adesso però ha deciso di raccontarla. Perché? “Perché vorrei che la mia storia, così come il mio attuale impegno professionale, fossero emblematici. Un ragazzino o una ragazzina con un passato e un profilo complessi, può comunque crescere e imparare a realizzare lo normali cose della vita.” Lei stessa ha deciso di prendere in affido due adolescenti... “Esatto, quasi quattro anni fa ho preso in affido due fratelli sine die. Oggi hanno tredici e sedici anni, e la femmina - mio alter ego - mi fa vedere i sorci verdi. La mia esperienza di ragazza mi è servita non solo per svolgere il mio lavoro con le famiglie, ma anche per essere madre di tre figli: i due affidatari ed il mio biologico.” Guardando quello che ha vissuto, cosa significa per lei essere madre? “Significa essere diversa dalla madre che ho avuto io. Dico sempre ai miei ragazzi: “Quando inquadrate un serio difetto di mamma e papà, identificatelo e orientate il righello dalla parte opposta, in modo da prendere una direzione diversa. Non bisogna considerare a tutti costi il genitore un modello, perché mamma e papà non sono infallibili.”