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“L’anoressia non è solo una cosa da ragazze e non significa solo non mangiare”

Antonio Simonetti, 21enne, racconta la sua storia e distrugge tutti i falsi i miti intorno ai disturbi dell’alimentazione: “Basta chiamarci scheletri ambulanti! Stereotipi, ignoranza e disinformazione ci emarginano ancora di più”

di CATERINA CECCUTI -
6 aprile 2024
La storia di Antonio Simonetti e il disturbo dell'alimentazione (foto di repertorio)

La storia di Antonio Simonetti e il disturbo dell'alimentazione (foto di repertorio)

Antonio Simonetti ha solo 21 anni, studia Giurisprudenza alla Luiss Guido Carli di Roma. Bastano pochi minuti al telefono per capire che nasconde una storia importante, difficile. “Ho contattato la vostra redazione – spiega a Luce! – perché sono sinceramente stanco della disinformazione che circonda i Disturbi dell'alimentazione (DCA). Non è vero, tanto per cominciare, che si tratta di una cosa che riguarda solo le ragazze e, soprattutto, soffrire di anoressia non significa soltanto non mangiare…quella è solo la punta di un iceberg che affonda le proprie radici nel profondo della persona, nella sua sofferenza.”

Una sofferenza così grande da far desiderare di assorbire il proprio corpo fino quasi a risparmiare, per non pensare, per impedire alle emozioni di sopraffarci. E, purtroppo, questa tecnica funziona.

Antonio Simonetti
Antonio Simonetti

La testimonianza  

Antonio, lei ha sofferto di Disturbi dell'alimentazione in passato? “Sì, dall'età di circa 12 anni ho iniziato a sviluppare i primi sintomi, preso da una rigidità alimentare e dall'esclusione di alcuni alimenti. Sono tutt'oggi in terapia, in regime di semi ospedalizzazione, per la terza volta in tre anni. Perché dalla mia malattia -l'anoressia- non è facile guarire. Non stiamo parlando di un capriccio, non passa con un po' di impegno e forza di volontà e non siamo scheletrici sottopeso ambulanti. Ana è una malattia mentale, un disturbo psichiatrico che vive e sopravvive nella generale sottovalutazione e nella distorsione percezione alimentata da ignoranza e indifferenza”.

Lei tiene particolarmente a sottolineare che l'anoressia non è un disturbo prettamente femminile…

"Assolutamente no, non è una condizione esclusivamente femminile ed io ne sono la prova vivente; questa bestia può colpire chiunque, indiscriminatamente da sesso, provenienza ed età. È complessa, insidiosa, difficile da capire anche per chi ne è affetto, figuriamoci per le persone che non lo sono.”

Forse qualcosa di simile ad un modo per anestetizzare il dolore? “Esatto, come dicevo prima il cibo è la punta di un iceberg estremamente profondo, caratterizzato da disagio, spesso da traumi, isolamento sociale, difficoltà relazionali, maschere che nascondono la persona a se stessa e agli altri e, purtroppo, molto altro ancora. L'anoressia e tutti i suoi colleghi DCA vengono troppo spesso e disgustosamente ridotti ad una mera questione di volontà, quasi un capriccio volto ad attirare l'attenzione da parte di persone che non riescono a controllare il proprio appetito. Non vi nascondo che vorrei fosse così, ma non ho mai sentito di gente che muore per un capriccio.”

Quante persone muoiono nel silenzio, per colpa di questo mostro? “Troppe. Non si tratta di casi isolati, non vorrei parlare di numeri ma evidentemente ve ne è la necessità, visto che la mortalità è la più alta tra i disturbi psichiatrici, toccando addirittura il 20%. L'ignoranza diffusa (che comprende anche battutine, giudizi affrettati e frasi di circostanza) non solo danneggia chi lotta contro questo disturbo-disagio, ma contribuisce in maniera sostanziale ad alimentare la vergogna e l'isolamento sociale che vive ed accompagna chi soffre di DCA. Cose come la paura del giudizio degli altri o la vergogna di avere un problema ci portano ad avere difficoltà ad ammettere di avere un problema. È necessario a questo punto che la gente impari che l'anoressia non colpisce in questo caso, ma è facilitata da una serie di fattori genetici, sociali, ambientali e psicologici e chi ne soffre lotta ogni singolo istante contro gravi disturbi dell'immagine corporea e dell'uomo. 'autostima. Per sopravvivere e uscirne è necessario un trattamento, a volte anche molto lungo, che dura anni e che include necessariamente professionisti della salute mentale, nutrizionisti e medici delle più svariate branche.”

Dunque l'ignoranza sul tema da parte delle persone può costituire un pericolo reale per chi è affetto da DCA… “Assolutamente sì. Bisogna smettere di associare l'anoressia a scheletri sottopeso ambulanti; molte delle persone che ne soffrono hanno un peso “normale” e nonostante questo non sono meno in pericolo di chi è sotto peso. Concentrarsi sull'aspetto fisico oltre ad evidenziare una limitata conoscenza dell'argomento trascura notevolmente la sofferenza emotiva e mentale che le persone con DCA hanno. Dobbiamo rompere il silenzio e promuovere una maggiore consapevolezza e comprensione dei disturbi del comportamento alimentare.”

Antonio Simonetti
Antonio Simonetti

La cura

In Italia le strutture adibite alla cura sono adeguate? “Purtroppo il nostro Paese soffre di mancanza di strutture specializzate, con un'evidente limitazione del diritto costituzionalmente garantito di accesso alle cure. Entrare nel sistema cura è difficilissimo; a Roma, per esempio, ho dovuto aspettare sei mesi di lista di attesa. La gente sta ancora male quando in alcuni centri di livello nazionale si viene dimessi non appena si raggiunge il normo peso. Invece non esiste cosa più sbagliata e pericolosa di questa.”

Antonio in cosa consiste la sua terapia di semi ospedalizzazione?

“Su cinque livelli di gestione della malattia definiti dalle linee guida ministeriali, attualmente io sono al livello 3, quello cioè che richiede l'assistenza da parte di un centro diurno, nel quale devo recarmi ogni giorno dalle 12 alle 20. I livelli successivi sono la riabilitazione intensiva residenziale e, nei casi più estremi, l'ospedalizzazione. Per quanto mi riguarda nel Centro diurno faccio attività psico riabilitative e pasti assistiti, durante i quali gli operatori si siedono vicino a me mentre mangio e mi incoraggiano a fare un pasto completo, stabilito da un medico nutrizionista.”

In che senso gli specialisti “la incoraggiano”?

“Oltre ai professionisti della nutrizione ci sono anche i tecnici della riabilitazione psichiatrica, simili agli psicologi ma più attenti all'aspetto pratico. Quando mangia, una persona con DCA cerca di trovare escamotage che la allontanino dal cibo: sminuzza il più possibile gli alimenti per dare l'idea di mangiare di più, alcuni assumono diuretici, altri fumano per non sentire la fame, altri ancora vomitano quello che hanno ingoiato. Nel pasto assistito mangiamo primo, secondo, contorno e frutta e il professionista che ci affianca conosce bene i nostri stati d'animo; sa che esistono alimenti che ci terrorizzano letteralmente, nel mio caso è la mozzarella. Quando ne vedo una vado nel panico, so esattamente quante calorie ha, conosco tutto degli alimenti che mi spaventano. Ogni persona con DCA ha i propri e tende ad escluderli in maniera categorica… dopo di che reintrodurli diventa difficilissimo. Una persona con anoressia tende anche ad isolarsi per non entrare in contatto con nessuno, il suo disturbo serve a scappare, a non soffrire per traumi o cose che con il cibo non c'entrano niente direttamente. Il professionista che ci affianca sottolinea che evitando di mangiare non contrastiamo quella forte sofferenza, piuttosto distruggiamo il nostro corpo e peggioriamo i nostri problemi.”

In tre anni di terapie quali sono stati i risultati che ha raggiunto? “È un percorso tortuoso, caratterizzato da alti e bassi, non si esce dal DCA quando si raggiunge il normo peso, ma solo curando i problemi che si nascondono e causano questa condizione. Nutrirmi è solo un modo per sopravvivere, i primi miglioramenti sono stati evitare di morire, perché di questa roba si muore. Poi ho lavorato per migliorare il mio rapporto con gli alimenti e ho iniziato a capire che io non sono la mia malattia, semmai è lei ad essere una parte di me, che deve essere contrastata e smantellata.”

Riesce a studiare ancora?

“Non sempre, il DCA ti toglie tanto, anche la piena capacità di affrontare gli studi. Con il centro diurno non posso frequentare le lezioni in presenza, sono solo seguito da un tutor che settimanalmente mi incontra e fa un riassunto delle cose che mi sono perso. Purtroppo per colpa dell'anoressia ho il pensiero rigido, non riesco ad acquisire normalmente le nozioni e faccio il triplo della fatica che farebbe una persona normale.”

E i suoi amici? “Nella fase acuta, la malattia mi ha allontanato anche da loro. Gli amici conosciuti all'università non posso frequentarli con regolarità perché sono sempre in balia degli alti e bassi della malattia…è lunga ed è dura. Per uscirne occorre tempo, perché lei è sempre presente, in qualsiasi azione che faccio o non faccio: l'anoressia condiziona tutto e niente è salvo nella vita della persona che ne soffre”.