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Ormai da più di un decennio e oltre in Italia non si fa altro che parlare di pensioni. La legge Fornero, tra chi vuole abolirla (almeno a parole) e chi ampliarla, Quota103, il sistema retributivo, il sistema contributivo. Da un lato non ci sarebbe nemmeno nulla di strano, visto che siamo uno dei Paesi più vecchi d’Europa. Eppure è sempre più probabile che alla fine quelli che dovranno lavorare fino a vecchiaia inoltrata sono i giovani di oggi, per questo nel dibattito pubblico si è arrivati addirittura a parlare di furto intergenerazionale. Il problema è che non sempre sono chiari i meccanismi che reggono la struttura pensionistica italiana e spesso si fa gran confusione. L’attuale Governo nella prossima legge di bilancio andrà a toccare anche questo tema, ma è sempre più difficile capire quali sono le ripercussioni per chi la pensione forse non la vedrà mai. Bisogna allora consultare chi questa materia la mastica, come il dottor Giovanni Calvellini, professore di Diritto del lavoro all’Università degli studi di Siena.
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Navigare nel labirinto pensionistico
Per prima cosa cerchiamo di capire come funziona il sistema pensionistico: “Ci sono due forme di pensione: la pensione di vecchiaia e la pensione di vecchiaia anticipata. Così a partire dalla riforma Fornero del dicembre 2011 – ha spiegato Calvellini -. Alla pensione di vecchiaia si accede secondo due canali”. “Il primo canale prevede un misto tra età anagrafica (67 anni) e anzianità contributiva (almeno 20 anni di contributi versati), e un requisito di importo della pensione (che deve essere pari ad almeno una volta e mezzo l’assegno sociale). Il secondo canale prevede 71 anni di età più 5 di contributi”. Semplice? Non proprio: “Si tratta di una materia particolarmente tecnica, dove ogni regola ha un’eccezione e ogni eccezione genera a sua volta più eccezioni” ha avvertito Calvellini. E infatti: “Oltre alle due strade messe a disposizione dal meccanismo generale c’è la cosiddetta ‘pensione anticipata’, che si ottiene con un requisito di anzianità contributiva, a prescindere dall’età anagrafica. Ad esempio, un uomo che lavora da 43 anni, può andare in pensione anche se ne ha 63. Poi – ha spiegato il professore -, ci sarebbe la cosiddetta Quota 103 cioè 62 anni di età più 41 di contributi”. Fin qui alcuni problemi sono già evidenti: 71 anni di età sono molti, ma anche 63 a seconda del lavoro che si svolge e che forse si è svolto per tutta la vita. Per un operaio, un camionista o chi, ad esempio, lavora sempre di notte, i problemi fisici rischiano di aggravarsi molto con l’età. Oltre questo c’è il fatto che il mercato del lavoro si rigenera tramite gli accessi alle pensioni, anche se non ci sono dimostrazioni di una corrispondenza diretta fra numero dei pensionamenti e numero degli accessi al lavoro, un briciolo di turnover in un’azienda che sconta dei pensionamenti c’è sempre.Passato e presente, le radici del problema
Per capire invece quali possono essere le problematiche relative all’importo si deve prima considerare che a partire dalla legge Fornero del 2011 la pensione in Italia si calcola secondo il sistema contributivo. “La riforma Fornero, ha accelerato un processo che era già in corso – ha spiegato Calvellini -; il vero cambio di logica c’è stato nei primi anni Novanta e la prima svolta nel 1995 con la riforma Dini, che ha previsto un superamento graduale del sistema retributivo di calcolo della pensione, com’era precedentemente”. Significa che dal 1995 la pensione non si è più calcolata sull’importo degli ultimi stipendi percepiti, ma sul totale dei contributi versati, generando un abbassamento generale degli importi. Calcolando la pensione sugli ultimi 5 anni di lavoro l’importo medio dello stipendio è più alto che calcolandola sulla media di tutti gli stipendi percepiti. Ma come ci siamo arrivati a questo? A monte c’è un problema di vecchia data e ben lontano dall’essere risolto.![pensioni-contributi-giovani](https://luce.lanazione.it/wp-content/uploads/2023/12/la-folla-dei-migliori-amici-1024x621.jpg)