Pionieri Queer: Antonio Rocco e la teologia (omo)sessuale del corpo

Professore di filosofia legato al libertinismo, identificato come l'autore di una delle più celebri apologie della pederastia "L'Alcibiade fanciullo a scola", pubblicato anonimo a Venezia nel 1651

di LUCA SCARLINI -
4 luglio 2023
la tomba del tuffatore

la tomba del tuffatore

Il corpo è la carta geografica dell’assoluto. Sui nei, sui punti neri, nel solco delle rughe, nell’incavo delle ascelle si possono leggere le più riposte geometrie dell’Assoluto. Una filosofia naturalista portata all’estremo è la specialità di padre Antonio Rocco, cui si deve il libro più maledetto di tutta la storia della letteratura Italiana, quell’Alcibiade fanciullo a scola che gli dà un primato assoluto tra coloro che sono appassionati di perle degli Inferni bibliotecari.

Un libro maledetto in un'epoca illiberale

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Socrate istruisce Alcibiade nella casa di Aspasia, dipinto di Jean-Léon Gérôme

Con quanto gusto, nel secolo dei Lumi, i bibliofili deprecavano l’esistenza di una simile vera e propria Summa atheologica, di cui pure dimostravano di avere letto attentamente il testo. Così J. Vogt attaccava nel Settecento un "liber spurcissimus, atque exencrandus de criminis sodomitici laude ac arte” e qualche anno dopo Jacob Bauer apriva il fuoco contro il "liber nefandus et abominabilis". In tutto questo le possibilità reali di leggere quest’opera erano state minime, se non inesistenti. Si trattava, come in tutto il gran mondo libertino, in un’epoca illiberale, di un’opera uscita dalla macchia, sotto falso nome, che circolava sotterraneamente. Tra le ipotesi autoriali dei virtuosi denigratori c’erano i soliti noti: Pietro Aretino, Ferrante Pallavicino, quei pochi che esplicitamente avessero giocato con il fuoco del sesso, connettendone il potere salvifico di demistificazione al mondo intoccabile della fede e delle sue infinite ricadute politiche.

La teologia del corpo

La teologia del padre Antonio era infatti di tipo squisitamente corporeo. Una lettera anonima, depositata negli archivi del Maggior Consiglio, ci informa di come e quanto si interrogasse se i propri parrocchiani avessero passioni di tipo sodomitico, affermando, a una risposta positiva, che questa era cosa buona e giusta, perché ciascuno deve seguire la propria natura. D’altro canto, non poteva certamente contare sulle giurie compiacenti e discinte di un paradiso gay, visto che la sua teoria affermava a ogni piè sospinto la mortalità dell’anima, la sconfitta delle prospettive d’eternità, sulla base di premesse naturalistiche. Quindi i godimenti dovevano essere nella tangibile dimensione del presente, nel ritmo della quotidianità, perché dopo non c’erano garanzie.

Il sesso raccontato tra le righe

Saggiare il limite della provocazione era, in effetti, il business favorito dei serenissimi signori di Venezia, che per decenni avevano protetto il filosofo Cesare Cremonini, aristotelico deviato e maestro prediletto della classe padrona della laguna. Il corpus filosofico è aperto quindi alla penetrazione, come dichiara l’avvertenza malandrina dell’autore, per cui "li antichi filosofi (…) incomminciavano da bel principio a cacciarli la loro scienza per lo buco di dietro", rendendo in questo onore al desueto verbo 'socratizzare', che illustrava il medesimo concetto nel dizionario, fino a qualche decennio fa.
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Il filosofo veneziano Antonio Rocco

Socrate il maestro delle parole che non volevano rimanere scritte, aveva metodi didattici invasivi certo, ma a tutta prova, proprio come quelli che il nostro autore clamorosamente pubblicizza: "Qui troverai il modo di far perfetti nelle scienze i tuoi figlioli, levandoli da maestri di Sodoma”. Qualche secolo dopo sarà il turno di uno dei padri della patria, Luigi Settembrini, di scoprire la stessa cosa, quasi con identiche parole, esibendo una sorpresa apparente, fingendo di aver trovato un falso papiro antico, I neoplatonici, in realtà una clamorosa gaia operina di sua fattura, scritta durante il patriottico soggiorno in carcere, in cui il sesso era tutt’altro che infrequente (come narrano le sue lettere). In sostanza entrambi gli scrittori usavano il riferimento alla classicità per dichiarare che la via “sottana” era quella preferibile in ogni caso alla acquisizione dei dati del reale.

L'Alcibiade fanciullo a scola

Questo libro veneziano era nato per una circolazione fantasmatica: l’autore, che voleva dichiarare a ogni piè sospinto la propria vocazione aristocratica, prendendo le distanze dal basso volgo intellettuale del suo tempo, verosimilmente si sarebbe contentato di una diffusione manoscritta nei giusti salotti, che potessero apprezzare il suo spirito tagliente, senza che lui dovesse soffrirne le conseguenze. Rocco, ben si capisce dal suo itinerario, amava la vita comoda e tranquilla, i ragazzi a sua disposizione, una certa larghezza della borsa. In definitiva la pubblicazione sembra ascrivibile al solito Giovan Francesco Loredan, che per nessun motivo avrebbe rinunciato al piacere di mettere in discussione il mondo fin dalle fondamenta, anche se, come accadde in altra occasione, avesse perfino a rischiarne qualcosa (ma sapeva che il suo statuto nobiliare fungeva benissimo da parafulmine e che più che da pericoloso eretico sarebbe stato infine trattato da scavezzacollo).

L'astio per Galileo Galilei

Il padre Rocco resta nella storia della cultura soprattutto per i suoi dissennati attacchi a Galileo Galilei, sua gran bestia nera, che egli firmava come fedele di Aristotele e “peripatetico” di riferimento della sua generazione, confutando il sermo novus del toscano contro una tradizione da cui non voleva in alcun modo allontanarsi.
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Antonio Rocco aveva una profonda avversione per il toscano Galileo Galilei

Nelle sue verbose Esercitationi filosofiche così dichiara i propri motivi per un attacco che vuole essere senza quartiere:
“Non ci può esser duello (& pur è tale ogni disputa) se non da scherzo, & ridicolo, ove non si trattan l'arme, che senza taglio, ove mai si ferisca, ma si minacci solo. E se egli, inimico fiero, implacabile, cerca non ferir solamente, & estinguer la dottrina di Aristotile, ma con punture acutissime, e velenose di lingua atterrar la sua fama, & più quella di suoi seguaci; perche ad altri, forse manco sproportionato ad esso, che egli ad Aristotile (à ragion di taglione, à giusta difesa) non sarà lecito far in parte l'istesso contro di lui? Io per tanto, come io, humilmente l'inchino; ma come ministro d'Aristotile (qual mi sia), con l'arme di Aristotile istesso, con i suoi naturali principij, che giudico sufficientissimi (come si vedrà nell'esito), non mancherò à quanto posso”
In poche parole: uno scontro che è, in primo luogo, una dichiarazione di esplicita lesa maestà ai danni del filosofo greco.

La misoginia e l'omosessualità

La misoginia è un gioco che nel Seicento è in gran voga, come nei secoli precedenti e nei seguenti, fino all’attualità. Non si contano le tentate dimostrazioni dell’inferiorità della donna, della sua incapacità di pensiero, tra il diffondersi dei notissimi dubbi, se a lei spettasse o meno un’anima, secondo le illuminate ripartizioni volute dal Creatore. L’autore nell’Alcibiade usa benissimo le esperienze di Galeno per raccontare come il seme sia frutto del sangue e per questo non sia possibile né ritenerlo (pena le malattie più inverosimili), ma nemmeno spargerlo liberalmente, se no seguiranno consunzione e morte. L’omosessualità, per Rocco, è il giusto mezzo ideale, la più perfetta espressione umana, il fine del genere a partire dall’attrazione di Adamo per il serpente maligno, che aveva da offrire una forma di conoscenza senza limiti di alcun genere. D’altro canto il meccanismo della seduzione da maestro ad allievo, quella pedagogia pedofila che dà luciferinamente ragione del proprio etimo, si dà in primo luogo dal suo appartenere a “quella età appunto in cui la natura industre, con piacevoli scherzi, sotto sembianze divine, confonde con maraviglie amorose il sesso femminile”. Al perfetto giovinetto dall’aspetto di ragazzina, era stato dato dalla città come maestro il dotto Filotimo che sapeva, con adeguato quanto violento doppio senso, “infonder soda e profonda dottrina ne’ petti altrui”. In definitiva quello di cui si parla qui è una idea modernissima, quel “possesso magistrale”, per usare l’espressione perfetta che Rocco predilige, che fa sì che il discente venga configurato a tutti gli effetti come corpo d’esperimento, in cui inoculare i più diversi bacilli, quasi come nelle malsane teorie didattiche che scandiscono i ricorrenti delitti de La lezione di Eugène Ionesco, in cui un represso professore di matematica uccide una dopo l’altra tutte le sue allieve, colpevoli di eccitarlo.

Il corteggiamento del giovinetto allievo

Tutto il testo è in sostanza un dialogo sillogistico che ha come scopo il convincimento del giovinetto, vanesio anziché no, che vanta di aver sedotto già in culla svariate signore e signori che volevano aver “amoroso commercio” con lui. In sostanza la sua esitazione di fronte al didatta, che peraltro assai lo attrae, è solo quella di sfuggire l’appartenenza a una categoria sociale che egli reputa sminuente, quella di “bardasso”, ossia marchetta, meretrice. Su questo il maestro lo rassicura, egli non potrebbe mai appartenere a quella categoria, perché dovrebbe darsi gratuitamente.
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Ritratto di Antonio Rocco, ritenuto l'autore dello scandaloso "Alcibiade fanciullo a scola"

In sostanza la retorica diviene parte di un corteggiamento, secondo una serie di confutazioni progressive di stereotipi del comportamento. In primo luogo non si deve parlare di “vizio contro natura”, perché la grande Madre accoglie nel proprio grembo anche coloro che hanno questo orientamento. In seconda istanza il territorio di caccia è rigidamente determinato, dai nove ai diciotto anni, poi i maschietti, proprio come i capretti, squisita leccornia, da odorosi di latte, diventano “fetidi becchi”, caproni schifosi e puteolenti. D’altra parte, di metafora animalesca in metafora bestiale, la relazione che c’è in termini sessuali tra la madre e il figlio, è quella che si dà “tra la carne di vitello e quella di vacca” e, notoriamente, non c’è cosa peggiore che legarsi a femmina che esercita una potestà sul maschio data dalla possibilità riproduttiva ed, in definitiva, dalla ragione di stato che ad essa è strettamente connessa.

L'origine del piacere

La prospettiva diventa sempre più legata a un rigorosissimo naturalismo, perché “le inclinazioni sono contrapesi datici dalla natura e da Dio e chi segue quelli non s’allontana dai propri principii, non fa contro l’istitutore”. La prospettiva, giocoforza, si fa sempre più libertina, fino a una discettazione sull’origine del piacere che risulta di straordinaria forza. Come precettore il filosofo infatti afferma: “Dovete dunque sapere che la virtù primiera del tatto risiede come dicono i più intendenti filosofi, nelle parti nervose e negl’istessi nervi: e de qui avviene che quelle parti offese sentono più dolore, e vezzeggiate ricevono maggior piacere. Perciò il colmo dei piaceri è posto ne’ genitali, essendo quasi totalmente composti di gentilissimi nervetti. Or questo tatto ha il sopremo del contento quando col mezzo di convenevoli tempre, qualsi col pletro, sia al nativo suo dolce eccitato”. Seguono poi osservazioni quasi tecniche sulla giusta quantità di seme da emettere per perdere se stessi e il proprio sangue, sulla difficoltà di confidare solo nella masturbazione, che è una padrona troppo esclusiva e violenta.

Il rispetto della "merce sessuale" e la guida del precettore

Tutta questa disamina è comunque basata su un preventivo rispetto della “merce” sessuale, perché “si ritrovano certi asinacci che invece d’apportar giubilo e contento all’amato fanciullo, a guisa di tanti macellari, sottopongono li poveri fanciulli alle sbregature e il trofeo di queste loro empie beccarie sono lacrime, sangue e fratture di quei innocenti e semplici agneleti”. Come a dire che solo in mano sua il giovane Alcibiade avrebbe potuto affidarsi senza timore alla pratica, che fino a poco tempo prima tanto gli sembrava dubbia e improbabile, godendo della massima stimolazione di quei “nervetti” che fanno tanto amare la penetrazione da molti ragazzini prepuberi.
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Eròmenos (ragazzo) e un erastès (adulto). Interno di una kylix attica a figure rosse, al Museo del Louvre

La visione pedofila del mondo

In definitiva ciò che più parve orroroso in tale scrittura è il fatto che l’unica forma tangibile di Paradiso è appunto il sesso penetrativo con il proprio simile, che dà “eternità piena e felice nel transitorio”. Le parole sono dirette e rifiutano ormai lo status di metafora per parlare del gran tema: “chi dunque fa secondo il suo potere beneficii più grati e più soavi, beneficii che diano vita ai languenti, che traslatino dal inferno nel paradiso l’anime tormentate, non s’assomiglia questo a proporzione a Dio”. In sostanza Antonio Rocco sigla una messa nera a favore di una visione pedofila estrema del mondo (che in definitiva anche certi fantolini “sodi” sono ben da considerare nel novero delle creature appetibili) quindi, in cui ogni consacrazione viene celebrata al contrario, e poco accade in questa narrazione, ma l’intelaiatura ideologica è chiarissima, portata quasi all’estremo. L’ultima parola è estrema, eppure perfettamente motivata nei passi precedenti: “l’uso tra maschi è concesso dalle leggi de più civili nazionali, da Persi, da Medi, da Indi e da’ più degni de’ nostri Greci”.

L'osceno diventa naturale

In sostanza l’osceno non era certo una novità nella cultura del tempo ed era anzi ben tollerato come diversivo a un’epoca di violentissime transizioni. Ciò che risultava intollerabile era la grande padronanza della macchina retorica del dialogo, che serve a dimostrare come anche quello che è decisamente opposto al concetto di “normalità” possa essere perfettamente naturale, erodendo dalle fondamenta una concrezione teologica del potere basata comunque sul membro riproduttore. Il verbo e il nerbo su cui Carlo Emilio Gadda ha detto parole supreme in Eros e Priapo si riecheggiano d’altra parte in tante lingue, come l’inglese will ben dichiara, oscillando pericolosamente nel senso tra mazza e libero arbitrio. Da accorto pubblicitario di se stesso lo scrittore pone nell’avvertenza una segnalazione di quello che sarà il sequel di tanta saga, destinato però a non vedere la luce: il Trionfo d’Alcibiade, “tanto più curioso, quanto che è parto della penna più dotta di questo paese”. L’onta, il disonore, le accuse saranno l’unico tramite di questa maledettissima storia, fino all’attualità, mentre l’autore continuava ad educare nelle sue radicali idee naturaliste il patriziato veneziano. Come afferma Antonio Valvasense nelle Glorie degli incogniti: “sovra a trecento soggetti sono usciti dalla sua Accademia”. Senza dubbio si è trattato di soggetti d’amore.