Torna a parlare dopo l’ictus: grazie all’AI si scopre bilingue

Il paziente, di madrelingua spagnola, dopo l’ictus non poteva più articolare le parole. Ora con delle neuroprotesi è tornato a comunicare, anche in inglese

27 maggio 2024
L'impianto cerebrale basato sull'AI ha aiutato una persona a parlare di nuovo

L'impianto cerebrale basato sull'AI ha aiutato una persona a parlare di nuovo

A soli 20 anni ha avuto un ictus che ha lasciato paralizzata metà del suo corpo, compreso compreso il tratto vocale. Pancho (nome di fantasia), un ragazzo madrelingua spagnolo protagonista oggi di uno studio rivoluzionario, da allora ha perso la facoltà di articolare parole in modo chiaro: poteva comunicare solo attraverso suoni, gemiti e grugniti, ma non sembrava più in grado di intavolare una conversazione vera e propria. 

Le neuroprotesi e l’intelligenza artificiale

Ora però, grazie al lavoro di un gruppo di scienziati dell'Università di San Francisco che è stato pubblicato sulla rivista Nature Biomedical Engineering, Pancho è tornato a ‘parlare’. E non solo in spagnolo, ma anche in inglese, lingua che ha imparato solo dopo l’ictus.  Per la prima volta infatti un impianto cerebrale ha aiutato una persona bilingue, non più in grado di articolare termini, a comunicare di nuovo a parole. Come? Grazie a un sistema di intelligenza artificiale (IA) collegato all'impianto cerebrale, in grado di decodificare in tempo reale ciò che l'individuo sta cercando di dire di volta in volta usando una delle due lingue.

Si tratta, non c’è neanche bisogno di dirlo e scusate il gioco di parole, di un contributo importante nel campo emergente delle neuroprotesi per il ripristino della parola. Anche perché sappiamo bene quanto la possibilità di comunicare con gli altri sia centrale per l’essere umano. Negli anni infatti Pancho non si è arreso al destino terribile di cui era stato vittima giovanissimo e ha deciso di collaborare con Edward Chang, il neurochirurgo coordinatore dello studio, per valutare gli effetti a lungo termine dell'ictus sul suo cervello. Nel 2021, il team di Chang ha impiantato chirurgicamente elettrodi nella corteccia cerebrale di Pancho per registrarne l'attività neurale, che è stata tradotta in parole su uno pc. La prima frase del paziente è stata interpretata in inglese, anche se questa lingua l’ha imparata solo dopo, per far fronte alle necessità, mentre è lo spagnolo che evoca in lui sentimenti di familiarità e appartenenza.

Da zero a cento: ora Pancho è bilingue

“Le lingue che parliamo sono in realtà molto legate alla nostra identità", afferma il professore a capo del gruppo di ricerca. Per questo il suo team ha voluto aiutare il giovane a recuperare la parola anche nella sua madrelingua. Per raggiungere questo obiettivo, gli esperti hanno sviluppato un sistema di intelligenza artificiale, con un modulo spagnolo e uno inglese, per decifrare il discorso bilingue di Pancho. Alexander Silva, primo autore dello studio, ha ‘addestrato’ il sistema di intelligenza artificiale mentre il paziente cercava di dire quasi 200 parole, poi mentre provava a dire delle frasi ad alta voce.

Ma come funziona? L'AI, attraverso una sorta di analisi di probabilità delle parole che si susseguono nella frase, cerca di indovinare le parole dette e capire la lingua, tentando poi di costruire un discorso. Il risultato finale produce due frasi – una in inglese e una in spagnolo – ma a Pancho sul video compare solo la frase con il punteggio di probabilità di utilizzo totale più alto. I due moduli dell'IA sono stati in grado di distinguere tra inglese e spagnolo con un'accuratezza dell'88%, sulla base della prima parola che Pancho ha cercato di pronunciare e hanno decodificato la frase corretta con un'accuratezza del 75%.

Prospettive future

Dallo studio sono emersi anche aspetti inattesi dell'elaborazione del linguaggio nel cervello: indagini precedenti hanno suggerito che lingue diverse attivano parti distinte del cervello, ma l'esame dei segnali registrati direttamente nella corteccia rileva che “molta dell'attività sia per lo spagnolo che per l'inglese proveniva effettivamente dalla stessa area”, spiega Silva. Inoltre, le risposte neurologiche di Pancho non sembravano differire molto da quelle dei bambini cresciuti bilingui, anche se lui aveva più di trent'anni quando ha imparato l'inglese. Perciò, insieme, questi risultati oltre ad aver ridato all’uomo la possibilità di articolare le parole, suggeriscono che lingue diverse condividono almeno alcune caratteristiche neurologiche e lasciano sperare che in futuro saranno sviluppate interfacce cervello-macchina sempre più precise.