Uomini trans che partoriscono: i Papà cavallucci o “Seahorse dad” contro i tabù
Un fenomeno ancora poco noto nel nostro Paese, che a questa scelta oppone ostacoli clinici, giuridici e soprattutto culturali. È attraverso i social che ci arrivano le storie dei papà trans che portano avanti le loro gravidanze
“Sono Marte una persona transgender non binaria che sta seguendo un percorso di affermazione di genere, uso il pronome maschile. Sono afab“. Marte è un attivista di Non una di meno transterritoriale Marche. Qualche giorno fa ha rilasciato un’intervista ad un’importante testata italiana per parlare quello che lui stesso definisce “un argomento tabù: la gestazione“. Non quella femminile, portata avanti da una donna (o da una persona che si definisce tale). Ma quella delle persone transgender.
Danny Wakefield, uno dei molti papà cavallucci, durante il parto del proprio figlio. L’uomo ha condiviso con i suoi follower i momenti più importanti, pubblicando foto e video dal suo profilo Instagram, che conta più di 35 mila follower
Forse vi sarà capitato di vedere, sui social soprattutto, le foto di Danny Wakefield o di Bennett Kaspar-Williams, due “simboli” di coloro che vengono definiti “I papà cavallucci, o Seahorse dad“. Ma cosa significa? Si tratta di un fenomeno poco conosciuto, specie nel nostro Paese, sebbene siano una realtà largamente diffusa in particolare nei paesi anglosassoni e oltreoceano, come dimostrano le due testimonianze citate. Si tratta di persone transgender –female to male– che hanno iniziato il percorso di transizione ma che scelgono anche di portare avanti la gravidanza e dare alla luce un figlio attraverso il proprio corpo. Il nome è un riferimento alla specie animale nella quale è il maschio a portare le uova depositate dalla femmina nella sua tasca fino alla loro nascita.
“Dietro a questo tipo di gravidanza – spiega Marte – non si nasconde nessun grande segreto“. Le persone transgender non binarie, che scelgono di ‘mantenere’ gli organi sessuali e riproduttivi femminili, possono avere una gravidanza grazie alla ‘crioconservazione’ dei gameti che poi vengono rimpiantati. Durante la gravidanza devono sospendere per alcuni mesi, a seconda dei casi, la terapia ormonale.
Nel nostro Paese oltre al fatto che non esiste alcun censimento ufficiale del numero di persone transgender che fanno questa scelta, per i “papà cavalluccio marino” la strada è piena di ostacoli da affrontare. Non soltanto clinici, ma soprattutto culturali. “Qui il personale sanitario non è formato. Avere davanti a sé una persona al maschile con un utero ha ancora un impatto enorme in Italia, anche in ambito sanitario. Per questo spesso ci si affida a endocrinologi per essere indirizzati verso strutture sanitarie pubbliche che abbiano un approccio ‘friendly’“, spiega Marte.
E dopo il parto gli ostacoli diventano anche giuridici. Solo la legge Cirinnà garantisce che la persona partoriente e autogestrice venga riconosciuta genitore o padre, ma “se si è in una relazione di coppia bisogna vedere se il riconoscimento viene esteso anche all’altra persona“. Insomma la decisione delle persone transgender di portare avanti la gravidanza comporta tutta una serie di problematiche collaterali, non ultima la disapprovazione o il giudizio di chi non condivide la loro scelta.
È ancora Marte a raccontare, dal profilo Instagram di Non una di meno transterritoriale Marche, che “nel giro di una sola ora sotto l’articolo si sono visti 1236 commenti carichi di transfobia e odio verso le persone T*. […] è solo la punta dell’iceberg. Chi si espone in prima persona non dovrebbe ricevere una vagonata di odio. Siamo persone e come tali dobbiamo essere riconosciutə e rispettate”.
Per chi volesse approfondire l’argomento, uno sguardo sincero sulla genitorialità transgender raccontata da chi l’ha vissuta arriva da “Seahorse: The Dad Who Gave Birth”. Si tratta di un documentario che narra la vicenda di Freddy McConnell, un giornalista gay transgender che ha lavorato al The Guardian e ha deciso di portare avanti una gravidanza e dare alla luce un figlio. Una persona riservata e poco incline ad esporsi agli occhi indiscreti del pubblico, che ha sentito la responsabilità di farlo per far conoscere e normalizzare la storia e le vite delle persone trans.