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Home » HP Trio » ‘Camp I Am’ per bambin* con identità non binaria. “Lì ho scoperto cosa vuol dire accettarsi”

‘Camp I Am’ per bambin* con identità non binaria. “Lì ho scoperto cosa vuol dire accettarsi”

Il primo campus per bambine e bambini ?gender non conforming' nacque nel 2008 dall'idea di una mamma. Da allora, grazie al successo di questo, se ne sono sviluppati tanti altri, per far sentire tutt* quest* bambin* accettat* e pienamente integrat*

Marianna Grazi
17 Agosto 2021
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C’è chi prova a ‘rieducarli’ e ‘convertirli’ e chi invece li iscrive a campus estivi dove possono esprimere al 100% sé stess*. Un approccio diverso, che dimostra una differente sensibilità delle famiglie e dei genitori nei confronti dei/delle* figl* con identità di genere non binaria. Per far sì che invece loro non debbano sentirsi divers*, o malat*. Solo così, con il sostegno dei genitori, la vita di un* giovane gender non conforming (ovvero che non si riconosce nel genere binario per l’espressione della propria identità) potrà essere felice.

I campus, in questo senso, rappresentano veri e propri momenti di socializzazione, divertimento e gioco, che consentono alle ragazze e ai ragazzi di confrontarsi con lə altrə compagnə senza necessità di nascondersi e senza il timore dato dal rivelarsi per quel che si è. E la loro storia è straordinaria e commovente.

Nel 2008, infatti, la madre di un* bambin* gender non-conforming ha organizzato un campeggio estivo, noto come ‘Camp I Am’: qui su* figli* e altr* ragazzi e ragazze non binari potevano tranquillamente indossare i vestiti convenzionali e giocare ai giochi tradizionali del sesso nel quale si identificavano.

La donna, Lindsay Morris, una fotografa professionista iniziò a immortalare nei suoi scatti quello che accadeva nel campus. Così crebbe il successo di ‘Camp I Am’, tanto che molte altre famiglie iscrissero i/le propri* figl*. Perché solo lì si sentivano liber* di essere davvero, nel più profondo senso della parola, chiunque volessero.

E quest’anno Lindsay ha voluto condividere questa storia, riunendo i/le componenti di quell’originario gruppo, ormai persone adulte. Tra di loro c’era ad esempio Elias, che ha riassunto la sua esperienza, nella quale si ritrovano anche altr* partecipanti:

“Camp mi ha regalato momenti per esprimermi liberamente e mi ha lasciato il ricordo di cosa si prova ad accettarsi. E anni dopo, questo mi ha aiutato a capire che le cose che abbiamo fatto al campus non erano in realtà qualcosa che dovevamo lasciare alla nostra infanzia”.

Nel tempo, su quel modello, sono nati altri campeggi estivi simili, come il ‘Rainbow Day Camp’, indirizzato a bambin* da 4 a 12 anni. Chi vi partecipa può scegliere un pronome con il quale verrà identificat*. Oggi, negli Stati Uniti, il protocollo maggiormente adottato quello noto come l’approccio “affermativo di genere”, che accompagna i bambini e le bambine non binari nel processo di ‘transizione sociale’, affinché possano identificarsi con il sesso che sentono proprio, piuttosto che con quello assegnato loro alla nascita, fino a quando non saranno adulti e potranno decidere autonomamente sul loro futuro.

 

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  • «Era terribile durante il fascismo essere transessuale. Mi picchiavano e mi facevano fare delle cose schifose. Mi imbrattavano con il catrame e mi hanno rasato. Ho preso le botte dai fascisti perché mi ero atteggiato a donna e per loro questo era inconcepibile».

È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l’unica persona trans italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti.

#lucenews #lucysalani #dachau
  • È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l
  • Elaheh Tavakolian, l’iraniana diventata uno dei simboli della lotta nel suo Paese, è arrivata in Italia. Nella puntata del 21 marzo de “Le Iene”, tra i servizi del programma di Italia 1, c’è anche la storia della giovane donna, ferita a un occhio dalla polizia durante le proteste in Iran. Nella puntata andata in onda la scorsa settimana, l’inviata de “Le Iene” aveva incontrato la donna in Turchia, durante la sua fuga disperata dall’Iran, dove ormai era troppo pericoloso vivere. 

“Ho molta paura. Vi prego, qui potrebbero uccidermi” raccontava l’attivista a Roberta Rei. Già in quell’occasione, Elaheh Tavakolian era apparsa con una benda sull’occhio, a causa di una grave ferita causatale da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine iraniane durante le manifestazioni a cui ha preso parte dopo la morte di Mahsa Amini.

Elaheh Tavakolian fa parte di quelle centinaia di iraniani che hanno subito gravi ferite agli occhi dopo essere stati colpiti da pallottole, lacrimogeni, proiettili di gomma o altri proiettili usati dalle forze di sicurezza durante le dure repressioni che vanno avanti ormai da oltre sei mesi. La ragazza, che ha conseguito un master in commercio internazionale e ora lavora come contabile, ha usato la sua pagina Instagram per rivelare che le forze di sicurezza della Repubblica islamica stavano deliberatamente prendendo di mira gli occhi dei manifestanti. 

✍ Barbara Berti

#lucenews #lucelanazione #ElahehTavakolian #iran #leiene
  • Ha 19 anni e vorrebbe solo sostenere la Maturità. Eppure alla richiesta della ragazza la scuola dice di no. Nina Rosa Sorrentino è nata con la sindrome di Down, e quel diritto che per tutte le altre studentesse e studenti è inviolabile per lei è invece un’utopia.

Il liceo a indirizzo Scienze Umane di Bologna non le darà la possibilità di diplomarsi con i suoi compagni e compagne, svolgendo le prove che inizieranno il prossimo 21 giugno. La giustificazione – o la scusa ridicola, come quelle denunciate da CoorDown nella giornata mondiale sulla sindrome di Down – dell’istituto per negarle questa possibilità è stata che “per lei sarebbe troppo stressante“.

Così Nina si è ritirata da scuola a meno di tre mesi dalla fine della quinta. Malgrado la sua famiglia, fin dall’inizio del triennio, avesse chiesto agli insegnanti di cambiare il Pei (piano educativo individualizzato) della figlia, passando dal programma differenziato per gli alunni certificati a quello personalizzato per obiettivi minimi o equipollenti, che prevede l’ammissione al vero e proprio esame di Maturità. Ma il liceo Sabin non ha assecondato la loro richiesta.

Francesca e Alessandro Sorrentino avevano trovato una sponda di supporto nel Ceps di Bologna (Centro emiliano problemi sociali per la Trisomia 21), in CoorDown e nei docenti di Scienze della Formazione dell’Alma Mater, che si sono detti tutti disponibili per realizzare un progetto-pilota per la giovane studentessa e la sua classe. Poi, all’inizio di marzo, la doccia fredda: è arrivato il no definitivo da parte del consiglio di classe, preoccupato che per la ragazza la Maturità fosse un obiettivo troppo impegnativo e stressante, tanto da generare “senso di frustrazione“, come ha scritto la dirigente del liceo nella lettera che sancisce l’epilogo di questa storia tutt’altro che inclusiva.

“Il perché è quello che ci tormenta – aggiungono i genitori –. Anche la neuropsichiatra concordava: Nina poteva e voleva provarci a fare l’esame. Non abbiamo mai chiesto le venisse regalato il diploma, ma che le fosse data la possibilità di provarci”.

#lucenews #lucelanazione #disabilityinclusion #giornatamondialedellasindromedidown
C'è chi prova a 'rieducarli' e 'convertirli' e chi invece li iscrive a campus estivi dove possono esprimere al 100% sé stess*. Un approccio diverso, che dimostra una differente sensibilità delle famiglie e dei genitori nei confronti dei/delle* figl* con identità di genere non binaria. Per far sì che invece loro non debbano sentirsi divers*, o malat*. Solo così, con il sostegno dei genitori, la vita di un* giovane gender non conforming (ovvero che non si riconosce nel genere binario per l’espressione della propria identità) potrà essere felice. I campus, in questo senso, rappresentano veri e propri momenti di socializzazione, divertimento e gioco, che consentono alle ragazze e ai ragazzi di confrontarsi con lə altrə compagnə senza necessità di nascondersi e senza il timore dato dal rivelarsi per quel che si è. E la loro storia è straordinaria e commovente. Nel 2008, infatti, la madre di un* bambin* gender non-conforming ha organizzato un campeggio estivo, noto come 'Camp I Am': qui su* figli* e altr* ragazzi e ragazze non binari potevano tranquillamente indossare i vestiti convenzionali e giocare ai giochi tradizionali del sesso nel quale si identificavano. La donna, Lindsay Morris, una fotografa professionista iniziò a immortalare nei suoi scatti quello che accadeva nel campus. Così crebbe il successo di 'Camp I Am', tanto che molte altre famiglie iscrissero i/le propri* figl*. Perché solo lì si sentivano liber* di essere davvero, nel più profondo senso della parola, chiunque volessero. E quest'anno Lindsay ha voluto condividere questa storia, riunendo i/le componenti di quell'originario gruppo, ormai persone adulte. Tra di loro c'era ad esempio Elias, che ha riassunto la sua esperienza, nella quale si ritrovano anche altr* partecipanti: "Camp mi ha regalato momenti per esprimermi liberamente e mi ha lasciato il ricordo di cosa si prova ad accettarsi. E anni dopo, questo mi ha aiutato a capire che le cose che abbiamo fatto al campus non erano in realtà qualcosa che dovevamo lasciare alla nostra infanzia". Nel tempo, su quel modello, sono nati altri campeggi estivi simili, come il 'Rainbow Day Camp', indirizzato a bambin* da 4 a 12 anni. Chi vi partecipa può scegliere un pronome con il quale verrà identificat*. Oggi, negli Stati Uniti, il protocollo maggiormente adottato quello noto come l’approccio "affermativo di genere", che accompagna i bambini e le bambine non binari nel processo di 'transizione sociale', affinché possano identificarsi con il sesso che sentono proprio, piuttosto che con quello assegnato loro alla nascita, fino a quando non saranno adulti e potranno decidere autonomamente sul loro futuro.  
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