
Mostre: a Pisa il Ritratto di Artemisia Gentileschi
Una violenza subita, dalla quale è sopravvissuta una donna forte capace di sopportare l’onta e andare oltre quel senso di vergogna che spesso arriva, riuscendo a conquistare, qualche anno dopo, il mondo che la circondava, il tenebroso e maschile Seicento romano. La mostra di Artemisia Gentileschi che il Palazzo Ducale di Genova ospita fino al 1° aprile 2024 apre un’ulteriore prospettiva su quella che si può considerare una protofemminista e un’artista la cui dimensione internazionale da metà del XX secolo è consolidata sempre di più. Il titolo è indicativo del carattere della pittrice nata nel 1593 e morta nel 1653: “Coraggio e Passione”. Il coraggio col quale ha affrontato lo stupro e la passione che ha messo nella vita e nell’arte tanto che per la critica ha superato il padre-padrone-maestro Orazio, comunque considerato uno dei caravaggeschi più illuminato dell’epoca.
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Artemisia Gentileschi: lo stupro, la vergogna e i sensi di colpa
Ma quanto la violenza sessuale ha condizionato Artemisia e quanto ha guidato la sua pittura? Molte associazioni che si occupano di difesa delle donne hanno preso il suo nome e danno un segnale ben pronunciato di ascolto e ripudio della violenza. La vicenda dello stupro subito da Artemisia nel maggio del 1611 ad opera di Agostino Tassi, collega e socio del padre Orazio con il quale stava condividendo l’affrescatura del Casino delle Muse di Roma e alla quale sembra abbia collaborato anche la talentuosa ragazza, rimane un episodio torbido e nel quale Tassi conferma quanto si dicesse di lui: ottimo quadraturista, fra i migliori della sua generazione, ma uomo violento, irascibile, frequentatore di bordelli e capace di commettere omicidi ma anche fortemente difeso dalle famiglie più influenti proprio per la sua eccellenza artistica. La violenza sessuale avviene nella casa di Orazio Gentileschi: Artemisia si oppone, ma deve cedere perché Agostino sa come minacciarla. Ma soprattutto Tassi cerca di fare terra bruciata attorno alla diciottenne aspirante artista: nel processo, lungo e turbolento, afferma di non averla deflorata, che lei se la facesse con uomini discutibili nelle taverne e addirittura si dilettasse nel meretricio. Il padre è una figura ambigua: non interviene subito e la parola di Artemisia non viene tenuta in considerazione. Lei spera che Agostino – uomo bello e affascinante – possa giungere a un matrimonio riparatore; lui la illude, ma poi l’allontana sempre più chiamandola “prostituta”. La denuncia scatta solo dieci mesi dopo quando Orazio decide di non onorare un debito con Tassi (200 scudi). Il tribunale sottopone Artemisia a vessazioni ma alla fine Tassi viene condannato anche se non farà neppure un giorno di galera. Per non trovarselo più attorno, Artemisia sceglie rifugio nella corte del Granduca di Toscana.
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, (1638-1639), Royal Collection, Windsor