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Home » Scienze e culture » Dalle sagome di pezza alle American Girl, le “Black dolls“ riscrivono la schiavitù: mostra a New York

Dalle sagome di pezza alle American Girl, le “Black dolls“ riscrivono la schiavitù: mostra a New York

Bambole, tessuti, giochi, strumenti per cucire e fotografie. Oltre 200 oggetti esposti alla New York Historical Society offrono una prospettiva unica della storia del razzismo: "Lo specchio di un periodo che va dalla metà del XIX secolo alla metà del XX, una verità diversa da quella riportata nei documenti ufficiali"

Letizia Cini
24 Febbraio 2022
Nello scatto anonimo datato 1943, ’Bambine con bambole di stoffa nera’, stampa in gelatina d’argento

Nello scatto anonimo datato 1943, ’Bambine con bambole di stoffa nera’, stampa in gelatina d’argento

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Oltre 110 bambole di stoffa nera, fatte a mano e realizzate tra il 1850 e il 1940, per raccontare il periodo storico che va dalla schiavitù alla Ricostruzione, da Jim Crow agli inizi del movimento per i Diritti civili. Il fiore all’occhiello della collezione di Deborah Neff è il perno centrale della mostra che ha appena aperto i battenti al New York Historical Society (fino al 5 giugno). Attraverso le Black Dolls, questo il titolo dell’esposizione, il gioco getta una nuova luce sulla persistenza del razzismo nella storia americana anche dopo l’emancipazione alla fine della Guerra Civile americana.

Harriet Jacobs, sfuggita alla schiavitù scrisse ’Incidenti nella vita di una schiava’ (1861) e creò queste tre bambole per i figli dello scrittore Nathaniel Parker Willis intorno al 1850-60
Harriet Jacobs, sfuggita alla schiavitù scrisse ’Incidenti nella vita di una schiava’ (1861) e creò queste tre bambole per i figli dello scrittore Nathaniel Parker Willis intorno al 1850-60

Oltre 200 oggetti esposti

Fra i duecentooggetti esposti – oltre alle 110 bambole della collezione privata Neff, ci sono tessuti, giochi, strumenti per cucire e fotografie – la rassegna offre una prospettiva unica della storia del razzismo: le bambole sono esposte in ordine cronologico, partendo da quelle che riflettono gli orrori della schiavitù per poi passare attraverso l’era della Ricostruzione, Jim Crow e gli inizi del movimento dei diritti civili negli anni ‘60.
“Queste Black dolls sono lo specchio di un periodo che va dalla metà del XIX secolo alla metà del XX, ma raccontano una storia diversa da quella scritta nei documenti ufficiali – spiegano le due curatrici, Margi Hofer e Dominique Jean-Louis – . È quelle delle donne afro americane che all’epoca non avevano voce e che le stesse hanno espresso attraverso la realizzazione di bambole che, anche se sotto forma di un gioco, rivelano il loro pensiero, le loro difficoltà, e anche un gran senso di dignità».

Leo Moss, un tuttofare di Macon, in Georgia, riutilizzò bambole bianche per realizzarne di nere, con le sembianze dei sui suoi amici e familiari: nella foto ’Bambola con lacrime’ (1922)
Leo Moss, un tuttofare di Macon, in Georgia, riutilizzò bambole bianche per realizzarne di nere, con le sembianze dei sui suoi amici e familiari: nella foto ’Bambola con lacrime’ (1922)

Da schiava a scrittrice: Harriet Jacobs

Tre delle ’dolls’ in mostra sono state realizzate dalla scrittrice afro americana Harriet Jacobs (1813 -1897), nata schiava e sin da bambina soggetta a molestie sessuali da parte del suo padrone. La donna riuscì a scappare dalla schiavitù e dalla violenza fisica da trentenne e realizzò le bambole per i bambini di una famiglia bianca per la quale lavorò dopo la fuga. Nella sua autobiografia Incidents in the life of a slave girl (1861), pubblicato con lo pseudonimo di Linda Brent, la schiava liberata racconta come, durante gli anni in fuga, usò il lavoro di cucito come un sollievo per la sua solitudine. Altre tre bambole furono realizzate negli anni ‘30 da Leo Moss, artista afro americano autodidatta della Georgia che riconvertì alcune bambole (bianche) modificando i loro capelli, caratteristiche ed espressioni della faccia, tingendo la pelle con la cromatina affinché somigliassero a se stesso, alla sua famiglia e ai suoi vicini“.

La prima bambola di colore

L’ultima bambola della collezione in mostra è invece il personaggio Addy Walker, la prima bambola di colore realizzata dall’azienda americana di bambole American Girl nel 1993, con lo scopo di educare i bambini sulla schiavitù e l’emancipazione americana. Addy ha i capelli intrecciati e indossa oggetti simbolo della cultura afro americana.

“The doll experiment”

stra è invece il personaggio Addy Walker, la prima bambola di colore realizzata dall’azienda americana di bambole ‘American Girl’ nel 1993
Addy Walker, la prima bambola di colore realizzata dall’azienda americana di bambole ‘American Girl’ nel 1993

Fu proprio un esperimento con le bambole condotto nelle allora segregate scuole degli Stati Uniti a portare, nel 1954, all’istituzione di scuole miste in tutto il Paese. Negli anni ‘40, un gruppo di psicologi usarono appunto le bambole per testare il grado di pregiudizio in cui crescevano i bambini: la netta preferenza dei bimbi – sia bianchi che neri – per le quelle bianche contro quelle scure e le parole con cui spiegavano la scelta, li spinsero ad affermare che la segregazione andava cancellata. “The doll experiment” fu riproposto nel 2010 da Anderson Cooper su Cnn e si capì che nell’era di Barack Obama, primo presidente afroamericano, molti pregiudizi razziali restavano intatti.

I “Doll test”

Tornando agli anni Quaranta, gli psicologi Kenneth e Mamie Clark progettarono e condussero una serie di esperimenti conosciuti come Doll test per studiare gli effetti psicologici della segregazione sui bambini afroamericani. Vennero usate quattro bambole, identiche tranne che per il colore, per testare le percezioni razziali dei bambini. Il Doll Test prese in esame 253 bambini neri di età compresa tra i tre e i sette anni: 134 dei bambini avevano frequentato scuole materne segregate in Arkansas, 119 scuole integrate nel Massachusetts.

A ciascuno di loro vennero mostrate quattro bambole: due con pelle bianca e capelli gialli, e due con pelle marrone e capelli neri. Ad ogni studente venne stato chiesto di identificare la razza della bambola e con quale preferivano giocare. La maggior parte degli studenti neri indicavano la bambola bianca con i capelli gialli, assegnandole tratti positivi, e scartavano la bambola marrone con i capelli neri, assegnandole tratti negativi. I Clark conclusero che all’età di 3 anni i bambini neri si erano già formati un’identità razziale, attribuendo tratti negativi alla propria identità, perpetuati dalla segregazione e dal pregiudizio. “il pregiudizio, la discriminazione e la segregazione” avevano creato un sentimento di inferiorità tra i bambini afroamericani danneggiando la loro autostima.

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  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
  • Presidi psicologici, psicoterapeutici e di counselling per tutti gli studenti universitari e scolastici. Lo chiedono l’Udu, Unione degli universitari, e la Rete degli studenti medi nella proposta di legge ‘Chiedimi come sto’ consegnata a una delegazione di parlamentari nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio.

La proposta è stata redatta secondo le conclusioni di una ricerca condotta da Spi-Cgil e Istituto Ires, che ha evidenziato come, su un campione di 50mila risposte, il 28 per cento abbia avuto esperienze di disturbi alimentari e oltre il 14 di autolesionismo.

“Nella nostra generazione è ancora forte lo stigma verso chi sta male ed è difficile chiedere aiuto - spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Udu - l’interesse effettivo della politica si è palesato solo dopo il 15esimo suicidio di studenti universitari in un anno e mezzo. Ci sembra assurdo che la politica si interessi solamente dopo che si supera il limite, con persone che arrivano a scegliere di togliersi la vita.

Dall’altro lato, è positivo che negli ultimi mesi si sia deciso di chiedere a noi studenti come affrontare e come risolvere, il problema. Non è scontato e non è banale, perché siamo abituati a decenni in cui si parla di nuove generazioni senza parlare alle nuove generazioni”.

#luce #lucenews #università
  • La polemica politica riaccende i riflettori sulle madri detenute con i figli dopo la proposta di legge in merito alla detenzione in carcere delle donne in gravidanza: già presentata dal Pd nella scorsa legislatura, approvata in prima lettura al Senato, ma non alla Camera, prevedeva l’affido della madre e del minore a strutture protette, come le case famiglia, e vigilate. La dichiarata intenzione del centrodestra di rivedere il testo ha messo il Pd sul piede di guerra; alla fine di uno scontro molto acceso, i dem hanno ritirato il disegno di legge ma la Lega, quasi per ripicca, ne ha presentato uno nuovo, esattamente in linea con i desideri della maggioranza.

Lunedì non ci sarà quindi alcuna discussione alla Camera sul testo presentato da Debora Serracchiani nella scorsa legislatura, Tutto ripartirà da capo, con un nuovo testo, firmato da due esponenti del centrodestra: Jacopo Morrone e Ingrid Bisa.

“Questo (il testo Serracchini) era un testo che era già stato votato da un ramo del Parlamento, noi lo avevamo ripresentato per migliorare le condizioni delle detenute madri – ha spiegato ieri il dem Alessandro Zan – ma la maggioranza lo ha trasformato inserendovi norme che di fatto peggiorano le cose, consentendo addirittura alle donne incinte o con figli di meno di un anno di età di andare in carcere. Così non ha più senso, quindi ritiriamo le firme“.

Lo scontro tra le due fazioni è finito (anche) sui social media. "Sul tema delle borseggiatrici e ladre incinte occorre cambiare la visione affinché la gravidanza non sia una scusa“ sottolineano i due presentatori della proposta.

La proposta presentata prevede modifiche all’articolo 146 del codice penale in materia di rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena: “Se sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti – si legge nel testo presentato – il magistrato di sorveglianza può disporre che l’esecuzione della pena non sia differita, ovvero, se già differita, che il differimento sia revocato. Qualora la persona detenuta sia recidiva, l’esecuzione della pena avviene presso un istituto di custodia attenuata per detenute madri“.

#lucenews #madriincarcere
Oltre 110 bambole di stoffa nera, fatte a mano e realizzate tra il 1850 e il 1940, per raccontare il periodo storico che va dalla schiavitù alla Ricostruzione, da Jim Crow agli inizi del movimento per i Diritti civili. Il fiore all’occhiello della collezione di Deborah Neff è il perno centrale della mostra che ha appena aperto i battenti al New York Historical Society (fino al 5 giugno). Attraverso le Black Dolls, questo il titolo dell’esposizione, il gioco getta una nuova luce sulla persistenza del razzismo nella storia americana anche dopo l’emancipazione alla fine della Guerra Civile americana.
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Oltre 200 oggetti esposti

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Leo Moss, un tuttofare di Macon, in Georgia, riutilizzò bambole bianche per realizzarne di nere, con le sembianze dei sui suoi amici e familiari: nella foto ’Bambola con lacrime’ (1922)
Leo Moss, un tuttofare di Macon, in Georgia, riutilizzò bambole bianche per realizzarne di nere, con le sembianze dei sui suoi amici e familiari: nella foto ’Bambola con lacrime’ (1922)

Da schiava a scrittrice: Harriet Jacobs

Tre delle ’dolls’ in mostra sono state realizzate dalla scrittrice afro americana Harriet Jacobs (1813 -1897), nata schiava e sin da bambina soggetta a molestie sessuali da parte del suo padrone. La donna riuscì a scappare dalla schiavitù e dalla violenza fisica da trentenne e realizzò le bambole per i bambini di una famiglia bianca per la quale lavorò dopo la fuga. Nella sua autobiografia Incidents in the life of a slave girl (1861), pubblicato con lo pseudonimo di Linda Brent, la schiava liberata racconta come, durante gli anni in fuga, usò il lavoro di cucito come un sollievo per la sua solitudine. Altre tre bambole furono realizzate negli anni ‘30 da Leo Moss, artista afro americano autodidatta della Georgia che riconvertì alcune bambole (bianche) modificando i loro capelli, caratteristiche ed espressioni della faccia, tingendo la pelle con la cromatina affinché somigliassero a se stesso, alla sua famiglia e ai suoi vicini“.

La prima bambola di colore

L’ultima bambola della collezione in mostra è invece il personaggio Addy Walker, la prima bambola di colore realizzata dall’azienda americana di bambole American Girl nel 1993, con lo scopo di educare i bambini sulla schiavitù e l’emancipazione americana. Addy ha i capelli intrecciati e indossa oggetti simbolo della cultura afro americana.

“The doll experiment”

stra è invece il personaggio Addy Walker, la prima bambola di colore realizzata dall’azienda americana di bambole ‘American Girl’ nel 1993
Addy Walker, la prima bambola di colore realizzata dall’azienda americana di bambole ‘American Girl’ nel 1993
Fu proprio un esperimento con le bambole condotto nelle allora segregate scuole degli Stati Uniti a portare, nel 1954, all’istituzione di scuole miste in tutto il Paese. Negli anni ‘40, un gruppo di psicologi usarono appunto le bambole per testare il grado di pregiudizio in cui crescevano i bambini: la netta preferenza dei bimbi - sia bianchi che neri - per le quelle bianche contro quelle scure e le parole con cui spiegavano la scelta, li spinsero ad affermare che la segregazione andava cancellata. “The doll experiment” fu riproposto nel 2010 da Anderson Cooper su Cnn e si capì che nell’era di Barack Obama, primo presidente afroamericano, molti pregiudizi razziali restavano intatti.

I "Doll test"

Tornando agli anni Quaranta, gli psicologi Kenneth e Mamie Clark progettarono e condussero una serie di esperimenti conosciuti come Doll test per studiare gli effetti psicologici della segregazione sui bambini afroamericani. Vennero usate quattro bambole, identiche tranne che per il colore, per testare le percezioni razziali dei bambini. Il Doll Test prese in esame 253 bambini neri di età compresa tra i tre e i sette anni: 134 dei bambini avevano frequentato scuole materne segregate in Arkansas, 119 scuole integrate nel Massachusetts. A ciascuno di loro vennero mostrate quattro bambole: due con pelle bianca e capelli gialli, e due con pelle marrone e capelli neri. Ad ogni studente venne stato chiesto di identificare la razza della bambola e con quale preferivano giocare. La maggior parte degli studenti neri indicavano la bambola bianca con i capelli gialli, assegnandole tratti positivi, e scartavano la bambola marrone con i capelli neri, assegnandole tratti negativi. I Clark conclusero che all’età di 3 anni i bambini neri si erano già formati un’identità razziale, attribuendo tratti negativi alla propria identità, perpetuati dalla segregazione e dal pregiudizio. “il pregiudizio, la discriminazione e la segregazione” avevano creato un sentimento di inferiorità tra i bambini afroamericani danneggiando la loro autostima.
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