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La giustizia climatica ora è un diritto umano

Storica sentenza della Corte europea di Strasburgo. Accolto il ricorso di duemila nonne svizzere: "Lo Stato non fa abbastanza"

di LORENZO GUADAGNUCCI -
9 aprile 2024

Roma, 20 aprile 2024 – D’ora in poi dovremo chiamarli “diritti climatici“ e considerarli per quello che sono: una versione aggiornata, più che aggiuntiva, dei diritti umani. Includono il diritto alla vita, alla salute, alla tutela familiare; il diritto ad avere un futuro. È successo tutto a Strasburgo, dove i diciassette giudici della Corte europea per i diritti umani hanno stabilito che le “nonne del clima“ hanno ragione e la Confederazione elvetica ha invece torto

Le "Anziane per il clima"
Le "Anziane per il clima"

La Svizzera, cioè, non ha fatto ciò che doveva per tutelare i diritti protetti dall’articolo 8 della Convenzione europea per i diritti umani, articolo che dice precisamente così: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare“. Che c’entra il clima? C’entra, perché le duemila donne (per un terzo over 75) riunite nell’associazione Les Aînées pour le climat (Anziane per il clima) sostengono che i cambiamenti climatici stanno danneggiando la loro vita, la loro salute, il loro benessere e la loro qualità della vita senza che il governo svizzero intervenga in modo adeguato.

La Corte sta dalla parte delle “nonne“ e ha quindi condannato la Svizzera, obbligandola ad agire. Le sentenze della Corte di Strasburgo sono vincolanti e si potrebbe dire che in questo modo i giudici stanno sconfinando nelle competenze governative, un’obiezione che la Corte ha ben presente e che ha risolto delegando al governo svizzero, e al Comitato di ministri incaricato di vigilare sull’attuazione delle sentenze, il compito di decidere modi e tempi d’intervento. Modi e tempi che però devono essere certi, efficaci e immediati.

Si capisce, dunque, che sul clima “c’è un giudice a Strasburgo“ e che la sentenza di ieri è destinata a spostare gli equilibri nelle complesse relazioni fra stati e comunità internazionale, fra giudici e politici, fra cittadini e autorità pubbliche.

Fra le righe, ma anche nelle righe, i diciassette giudici (fra loro l’italiano Raffaele Sabato) affermano una verità che né gli stati, né i leader politici, né gli stessi osservatori e commentatori più accreditati vogliono sentirsi dire e cioè che le classi dirigenti, nonostante proclami, promesse, vertici sul clima, hanno già deciso di non agire come sarebbe necessario fare, se l’obiettivo di frenare la catastrofe climatica fosse un imperativo. Cambiare davvero è considerato troppo costoso, in termini politici e ideologici, cioè di potere, prima ancora che economici: ecco la cruda verità.

La Corte di Strasburgo, con la sua sentenza, prova a cambiare passo, senza stare al gioco delle élite; parla della Svizzera ma il suo discorso riguarda l’intera comunità internazionale, a partire, ovviamente, dai 47 stati europei che hanno sottoscritto a partire dal 1947 la Convenzione sui diritti umani. La Svizzera, scrive la Corte, "non ha adempiuto agli obblighi previsti dalla Convenzione sui cambiamenti climatici", "non ha raggiunto i suoi stessi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra" e "non ha agito in tempo e in modo adeguato per ideare, sviluppare e attuare legislazioni e misure pertinenti". Lo sguardo dei giudici è insolitamente alto e non formale: "Le generazioni future rischiano di sopportare un peso sempre più grave in conseguenza dei fallimenti e delle omissioni attuali nella lotta al cambiamento climatico".

È curioso che l’attenzione alle future generazioni nasca dal ricorso di un folto gruppo di tenaci nonne svizzere, ma i giudici, mentre scrivevano la sentenza, devono aver pensato a un altro ricorso esaminato ieri, presentato da un gruppo di giovani portoghesi, a loro volta decisi a far valere a Strasburgo i diritti alla vita, alla salute, alla vita familiare, un ricorso presentato dopo gli gli enormi incendi del 2017, quando i sei avevano fra i 10 e i 23 anni di età. La Corte ha respinto il ricorso perché mancava un requisito essenziale, ossia l’esaurimento in patria tutti i gradi di giudizio. Un no formale, dunque, per un sì sostanziale.

Fuori dal palazzo di Strasburgo, con vari gruppi ecologisti, era presente ieri anche Greta Thunberg, meno presente di un tempo sulla scena mediatica, ma sempre attiva nei vari fronti di lotta per la giustizia climatica (è stata di recente arrestata in Olanda durante una manifestazione).

È stata lei , in qualche modo, a indicare la nuova rotta, non tanto per i suoi discorsi alle Nazioni Unite o al parlamento europeo, o per i suoi colloqui con ministri e capi di stato, quanto per la disillusione che a un certo punto manifestò: "Sul clima – disse proprio in Italia, rivolta ai leader politici globali – il vostro è solo un bla bla bla". Sembrano più convinti, e più protesi verso il futuro, i giudici della Corte di Strasburgo, che bene o male, con la loro sentenza, hanno definito una nuova idea dei diritti umani, e anche fatto capire che l’iniziativa dei cittadini e delle associazioni è più seria, più pertinente, più lucida della retorica e della prassi politica corrente. "La sentenza di Strasburgo – ha detto ieri Thunberg – non è che l’inizio".

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