Donne da romanzo, le eroine di Dostoevskij: "Adulterio? Atto di ribellione"

In 'Delitto e castigo' lo scrittore declina la figura femminile in tutte le sue possibili accezioni. Fra i temi trattati, infedeltà, parità dei sessi e legalità del matrimonio

di GUIDO GUIDI GUERRERA
27 marzo 2023

Julie Delpy nel film Tv ’Crime and Punishment’ (1998) diretto da Joseph Sargent (tratto dal romanzo ’Delitto e castigo’ di Fedor Dostoevskij), con Patrick Dempsey e Ben Kingsley

Delitto e Castigo, capolavoro assoluto di Fedor Dostoevskij, è un romanzo che mette al centro la figura della donna declinata in tutte le sue possibili accezioni. A cominciare dall’uccisione da parte del giovane e bizzarro Raskol’nikov di una abietta usuraia , immagine stereotipata della strega avida e maligna fino al punto da schiavizzare la sorella Lizaveta, mentre la sua salvezza e la sua resurrezione spirituale passeranno attraverso la mite e tenace Sof’ja. Lo scrittore russo, famoso per una incredibile e non comune capacità di scandagliare minuziosamente l’animo umano, e proprio per questo attaccato dai critici suoi contemporanei che avrebbero voluto vedere nel suo narrato maggiore attenzione verso i temi sociali, sottolinea stavolta con assoluto vigore temi scottanti come la parità della donna nei confronti dell’uomo, descrivendo un contesto a forte connotazione maschilista a patriarcale.
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, in passato in italiano indicato anche come Teodoro Dostojevski (11 novembre 1821, Mosca - 9 febbraio 1881, San Pietroburgo)

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, in passato in italiano indicato anche come Teodoro Dostojevski (11 novembre 1821, Mosca - 9 febbraio 1881, San Pietroburgo)

Si parla a un certo punto di legalità del matrimonio e del possibile adulterio all’interno di esso. Ebbene, per Dostoevskij la libertà viene prima di tutto e quello che a prima vista può essere giudicato come gesto di infedeltà è invece spesso un atto di ribellione, di rivoluzione nei confronti dei pregiudizi e di aberranti convenzioni sociali. Ancora una volta, però, pur facendosi paladino di una questione epocale, non resiste a mettere al centro l’essere umano, nato libero e per questo indipendente da ogni possibile forma di condizionamento. Così, affrontando l’argomento di una ipotetica crisi matrimoniale, un suo personaggio afferma: “Se mi sposassi (poco importa se matrimonio legale, o libera unione) porterei io stesso un amante a mia moglie. Le direi, infatti: io ti amo, ma ancor più desidero che tu m stimi …” Siamo a metà dell’800, in una San Pietroburgo descritta come una città grigia, poco accogliente, fangosa nell’aspetto quanto stagnante nel pensiero ipocrita e greve che la connota. Eppure lo scrittore con la tipica brillantezza della propria logica visionaria riesce a squarciare il velo gettando un raggio di sole nella guazza gretta di abitudini che tanto spesso anche gli uomini del nostro tempo tendono a scambiare per virtù.
Dostoevskij e Anja, la sua dattilografa divenuta sua seconda moglie fino alla fine

Dostoevskij e Anja, la sua dattilografa divenuta sua seconda moglie fino alla fine

Tutte le donne nel romanzo hanno un ruolo fondamentale nell’accompagnare la crisi esistenziale, parossistica e maniacale di Raskol’nikov. Un ragazzo di bell’aspetto, dotato di notevole intelligenza, costretto a lasciare l’università a causa della profonda indigenza in cui versa la sua famiglia. Non vuole pesare sulla madre e sulla sorella che adora, ma invece di impegnarsi a superare le difficoltà con lavoretti qualunque, si lascia vincere dal dedalo di elucubrazioni che finiscono per avvinghiarlo come una mortale tela di ragno. Vorrebbe essere un ‘grande’ ma deve fare i conti con i propri limiti e con una situazione contingente proibitiva, non si sente portato per le piccole rinunce, per i sacrifici quotidiani ma anela a ispirazioni e espiazioni che farebbero dell’uomo ordinario un superuomo. Quindi un eroe, secondo il delirio del protagonista, è colui che riesce a superare se stesso, che oltrepassa i limiti del lecito e del legale, in una sorta di guerra privata contro l’umanità e il sistema che la controlla. I conflitti che scoppiano nel mondo pronti a creare lutti e rovina a non finire vengono giustificati dalla storia, perché dunque non combattere da soli contro il male con le stesse strategie di un Napoleone? E il male viene da lui individuato nella strozzina Alëna Ivanovna, presso la quale il giovane va a impegnare le ultime sue, povere, cose, compreso l’orologio avuto in eredità dal padre, ricevendone in cambio pochi rubli. La megera picchia la sorella , una povera derelitta ‘minus habens’ ingenua come una bimba, pur di tenerla a piacimento sempre ai suoi ordini. La sciagurata si troverà per caso al momento del crimine e subirà da testimone scomoda la stessa terribile sorte. Il delitto è compiuto, ma il castigo? E’ quello predisposto dalla giustizia degli uomini? No, quello è ininfluente e perfino accessorio nello svolgersi della storia. Il vero castigo è quello che rode l’animo dello sventurato omicida, che lo ottenebra fino all’annientamento, che ne fa di lui uno zombi, diremmo oggi. Il suo comportamento è una costante autodenuncia di cui nessuno sembra avvedersi. E intanto la sua esistenza che vorrebbe essere quella dell’eremita, dimentico di sé fino all’abbrutimento assoluto, passa attraverso le esistenze delle donne. A cominciare da quella ragazzina, insipida, forse anche bruttina, che aveva amato precocemente e precocemente era morta di tubercolosi. Una immagine santificata che non smette di fluttuare nella sua mente nei momenti più tremendi del delirio. Ma soprattutto si stagliano le figure della sorella e della madre, che un bel giorno vanno a trovarlo scoprendo in che tremenda situazione si trovi. Sono a Pietroburgo per annunciare l’imminente matrimonio della sorellina Dunja con un ricco borghese, ma lui ‘sa’ che quell’unione è di comodo, serve solo a sistemare i problemi economici, e si mette in testa che quella scelta sia stata fatta per tirarlo fuori dai tanti guai che lo assillano.
Un ritratto giovanile di Anja, dattilografa di Dostoevskij divenuta sua seconda moglie fino alla fine

Un ritratto giovanile di Anja, dattilografa di Dostoevskij divenuta sua seconda moglie fino alla fine

Il rapporto con le due donne è viscerale, passionale ed eccessivo. I moti dell’animo di ciascuno sono determinati dalle reazioni dell’altro, e tutto il contesto soffre di una umoralità che porterà ad estreme conseguenze,a distacchi improvvisi. Dunja è fiera, orgogliosa, sa quello che vuole e non cede al ricatto di un suo folle corteggiatore, che oggi sarebbe senza dubbio indiziato come stalker. Eppure non esita a puntargli addosso una pistola e a fare fuoco, sbagliando la mira, perché lo scrittore non vuole fare di lei un’assassina. Il depravato Arkadij Ivanovič Svidrigajlov forse lo meriterebbe, perché si dice che abbia eliminato la moglie Marfa Petrovna , dopo averla picchiata a sangue nel corso di un litigio. La donna non se ne era curata troppo, aveva mangiato e bevuto pesantemente e poi si era immersa nell’acqua fredda, con esito fatale. Marfa era ricca e per questo il bon vivant l’aveva sposata, lei lo sapeva benissimo e anzi avevano fatto un patto preciso: ognuno la propria vita. Comunque siano andate le cose, il personaggio è molto interessante, sempre in bilico tra rassegnazione e ribellione, un stato di compromesso non raro in molte coppie. Dunja è decisamente donna del nostro tempo, bella, spregiudicata e capace di guardare dritto negli occhi senza abbassare lo sguardo. Difenderà se stessa dalla possibile violenza e poi dall’oltraggio che le dicerie avevano sparso a suo danno, facendole perdere il lavoro di insegnante. Dunja è simbolo di forza così come la madre è la personificazione della impressionabilità, della nevrosi e della instabilità, pur rappresentando l’archetipo del ‘cuore di mamma’, incarnazione della stessa Santa Madre Russia, che pur intuendo la natura segreta del figlio non riesce a confessare la verità neppure a se stessa. Tuttavia il personaggio chiave della vicenda è senza dubbio la piccola, quasi insignificante Sof’ja , figlia dell’ubriacone Marmeladov e della nobile Katerina Ivanovna. Con altri fratelli vive in un ambiente miserrimo e degradato, segnato dalle continue sbornie del padre, un uomo debole e sconfitto dalla vita, e dai deliri della madre che non si rassegna di aver dovuto dire addio alla sua precedente esistenza fatta di balli a corte e ambiziose speranze, afflitta ora dalla tisi e ridotta a rammendare di notte i cenci con cui tutti quanti sono costretti a vestirsi. La miseria, come sottolinea Dostoevskij, è ben diversa dal semplice stato di povertà: quella è una condizione che genera rovina, avvilisce le coscienze e porta a compiere atti inimmaginabili. Proprio in questo contesto la disgraziata, piccola, Sof’ia è costretta a vendersi per assicurare un tozzo di pane alla famiglia ridotta allo stremo. Lo fa come in sogno, senza la minima partecipazione, mantenendo intatta la condizione verginale della propria mente, restando miracolosamente incorrotta nonostante sia costretta a frequentare uomini abominevoli e a soddisfare i loro desideri. Come sonnambula, in uno stato di semi incoscienza offre il suo corpo, ma nello stesso istante il suo spirito vola via, lontano e irraggiungibile. Raskol’nikov la conosce casualmente dai racconti del padre, mentre entrambi si erano trovati a bere al tavolo di una bettola in una serata di condivisa disperazione, poi la vede il giorno in cui Marmeladov viene investito per strada da un carro e muore. Pur vivendo giorni di follia, di febbre incessante, di esaurimento psicofisico, il giovane è mosso a pietà dalla scena sconfortante che si apre ai suoi occhi. Mette mano alla tasca e non esita a offrire a quella sventurata famiglia tutti i soldi che possiede, regalo della madre. Scocca un lampo immediato di empatico, subitaneo affetto tra i due ragazzi. Lui sa del mestiere abietto di lei, in lacrime gliene aveva parlato l’afflitto Marmeladov, ma è l’ultima cosa a cui pensa. La vede per quella che è veramente: una sciagurata vittima schiacciata da un peso molto più grande di lei. E ne coglie l’essenza, sente che la sofferenza li affratella, ne indovina la squisitezza d’animo e si prostra ai suoi piedi come di fronte alla più nobile delle creature. Raffinata, dolcissima, paziente e dotata di una volontà di ferro, Sof’ja sarà la prima a conoscere il terribile segreto dell’omicida. Ne guida silenziosa i passi traballanti, lo osserva non vista da lontano, lo ama in silenzio senza che i due si siano mai confessati il sentimento reciproco. Lei è un’eroina di quei tempi e di qualsiasi altro possibile, si erge bella quanto l’aurora e magnifica come un esercito in armi, per dirla con il Cantico di Re Salomone: un fiore nato dal fango che sboccia nelle mani di un altro poveretto come lei, ingannato dalla vita e allucinato da illusioni impossibili. L’uno è contraltare dell’altro, perché entrambi sono esseri buoni, gentili e pieni di voglia di vivere, di amare e di sentirsi amati. E sarà proprio lei, Sof’ja la saggia come vuole il suo nome, a sciogliere il nodo della diffidenza, del rancore nei confronti dell’umanità, di una anaffettività che quel ragazzo si era costruito come falsa difesa. La pena che gli viene inflitta, quasi su sua insistenza reiterata, è di quattro anni ai lavori forzati in Siberia. Poco e tanto allo stesso tempo. Ma lui ce la farà, lui è finalmente come trasformato, perché adesso ha la sua Sof’Ja, perché si sono giurati amore tenendosi per mano, mentre i prigionieri del campo di lavoro li stanno guardando da lontano con gli occhi lucidi: sono giovani, belli e innamorati. Proprio quei condannati dal cuore indurito, oppressi dai sensi di colpa e dalla pena, hanno finito per amare teneramente quell’essere gracilino ma dagli occhi di fuoco, pronto a combattere ogni giorno per il suo amato, una donna esile come un giunco ma più forte di una roccia che ormai avevano imparato a chiamare con il dolce nome di mammina.