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Home » Scienze e culture » Persona o essere umano? In italiano si dice uomo. Donne comprese. “Le parole esistono, usiamole”

Persona o essere umano? In italiano si dice uomo. Donne comprese. “Le parole esistono, usiamole”

Maria Tiziana Lemme nel 2017 ha fondato l'associazione Femminile Maschile Neutro con l'antropologa Amalia Signorelli. L'obiettivo è quello di promuovere un cambiamento culturale e sociale che parta dalle parole che usiamo

Marianna Grazi
31 Gennaio 2022
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“Le parole esistono, vanno utilizzate”. Se di discriminazione si parla sempre di più, purtroppo o per fortuna, bisogna anche chiedersi quanto di questo fenomeno sia influenzato dalla cultura di ogni persona. E di conseguenza dal pensiero e sì, anche dalla lingua che parla. “La nostra visione del mondo, il nostro pensiero, la mappa che abbiamo delle persone, viene dalle parole che ascoltiamo, che leggiamo. Le parole sono tutto”. A dirlo è Maria Tiziana Lemme, giornalista e fondatrice insieme a Amalia Signorelli dell’associazione culturale Femminile Maschile Neutro, della quale è presidente. “Le parole hanno significati profondi. In opposizione al sostantivo ‘uomo’ usato a significare ‘essere umano’, noi vogliamo che si adotti, nei codici e nelle leggi, il sostantivo ‘persona’, il cui significato è universale. Siamo tutte persone, ma in Italia le donne sono sempre chiamate uomini. Nelle leggi una virgola ti può cambiare il significato totale di una frase e quelle italiane sono tutte declinate al maschile – sostiene la presidente -. Tutto ciò che non si dice non esiste. Tutto ciò che non si scrive non viene considerato”.

Maria Tiziana Lemme, presidente dell’associazione “Femminile Maschile Neutro”

Un retaggio culturale che ci portiamo dietro da sempre, per cui i diritti umani diventano diritti ‘dell’uomo’ (ad esempio nell’errata ratifica,  nel 1954, della Convention for the protection of human rights and fundamental freedoms) o all’articolo 575 del codice penale, che riguarda l’omicidio – etimologicamente ‘uccisione di un uomo’ – che recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con…”. Quindi se anche le donne possono essere vittime di uccisione (si dovrebbe quindi far riferimento ad assassinio) è per bontà dei giudici e dell’interpretazione estensiva di un codice rigido. “Nessun Paese, nemmeno la Siria, definisce l’essere umano uomo, in merito a questo reato”, continua Maria Tiziana.

Nella 2017 lei e Amalia Signorelli, “un’antropologa ma soprattutto una miniera di conoscenze (scomparsa lo stesso anno, ndr)” hanno fondato Femminile Maschile Neutro, con l’obiettivo di cambiare proprio questo status quo, partendo da quelle piccole cose di cui non ci accorgiamo e che soprattutto tanto piccole non sono. “Tanto il femminile è nascosto nella nostra lingua quanto il maschile viene assolutamente occultato quando si parla di ‘violenza sulle donne’. Si usa infatti la locuzione, poco chiara, ‘violenza di genere’ per cui l’agente, il maschio che fa violenza, non viene mai citato se non con termini neutri quale ‘ex’ o ‘partner’. Con Valeria Fedeli prima e con Titti di Salvo poi, nel 2017, abbiamo lavorato ad una proposta di legge da depositare in Parlamento (decreto 4643/17) che prevede l’introduzione dell’aggettivo ‘maschile’ nella normativa inerente alla violenza sulle donne”. Una proposta che le cronache ci insegnano è ancora lontana dall’essere approvata e adottata, ma qualcosa si muove: “Sono felice che un mese fa il ministero per le pari opportunità abbia varato il ‘Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne’. È la prima volta che questo aggettivo entra in un atto ufficiale”.

Dottoressa Lemme, la discriminazione parte dalla parola?
“È il pensiero che si forma. Il linguaggio forma il nostro pensiero e come non potrebbe essere altrimenti? Tutta questa situazione linguistica e discriminante si ripercuote nella condizione sociale ed economica delle donne (il gender gap italiano è il più alto fra i paesi industrializzati al 19,8%). Quando si parla di parole nelle leggi soprattutto una virgola ti può cambiare il significato totale di una frase e già le leggi italiane sono tutte declinate al maschile. Tutto ciò che non si dice non esiste. Tutto ciò che non si scrive non viene considerato”.

 Tutta questa negazione del femminile dalla nostra lingua si nota fin dalle basi. Ci fa qualche esempio?
“A scuola viene insegnato a declinare i verbi al maschile. I pronomi personali femminili non vengono mai utilizzati, sembrano quasi un’eccezione. Poi, gravissima, la negazione del femminile sulla carta di identità: nel nostro principale documento, attestazione della nostra identità personale, noi donne su quella cartacea abbiamo “nato il”, la firma è “del titolare”, si è “donatore di organi” e anche sulla carta elettronica la firma è “del titolare”. E ancora i sinonimi di donna, in Treccani, fino a pochi mesi fa erano insulti: si parlava di ‘cagna, troia, vacca, zoccola, puttana e via dicendo’. Ci fu quella lettera aperta, a firma di alcune linguiste e anche della vice direttrice della banca d’Italia e i termini ‘cagna’ e ‘vacca’ sono stati tolti, ma alla prima voce è rimasto il rimando alla donna e soprattutto tra i sinonimi di donna c’è ancora prostituta e donna di strada. Il linguaggio è androcentrico ma gli insulti sono ginocentrici”.

Nella lingua italiana corrente così come nei testi dei codici, delle leggi, amministrativi o scolastici il femminile è inglobato nel maschile

Quindi la donna è oggetto ‘di piacere’ o di desiderio dell’uomo ma non soggetto?
“Guardiamo alla definizione del sostantivo donna. Sempre su Treccani, ‘nella specie umana’ è considerata donna ‘l’individuo di sesso femminile soprattutto al raggiungimento della maturità anatomica e dunque dell’età adulta. Si contrappone a uomo in espressioni come ‘scarpe, borse, orologi da donna’. Una definizione scritta nella prima metà degli anni ’50. Si deve notare intanto che viene utilizzato il sostantivo individuo, che si usa anche per gli animali; e poi il fatto che siamo considerate adulte, quindi individui riconosciuti, solo dopo lo sviluppo, quando possiamo procreare (la nostra maturità anatomica). Le definizioni di uomo non contemplano nulla di tutto ciò: “è dotato di morale, di etica, capacità di distinguere il bene dal male”, tutte caratteristiche della persona che alla donna, nella definizione, non vengono riconosciute. Insomma la donna è colei che deve fare figli. Alla stregua di un animale”.

Tutte queste cose di cui stiamo parlando si riversano nel linguaggio corrente?
“Certo, nel linguaggio dei giornali e dei testi, nella considerazione filosofica e antropologica, persino nella medicina si riscontra la mancata considerazione della donna. Ci sono dei dati incredibili di donne morte per infarto, non avendo mai studiato il corpo femminile. Io non dimenticherò mai quando il presidente della Farmindustria disse ‘Ci siamo accorti che le donne non sono uomini con le gonne’. Adesso hanno capito che il corpo della donna non è uguale a quello dell’uomo, che i sintomi dell’infarto, ad esempio, sono differenti da quelli dell’uomo. Ma si chiama ‘medicina di genere’. Noi siamo come i panda, ma nemmeno protette”.

Sembra quasi che le donne non siano mai esistite e di conseguenza non siano mai state studiate per farne dei modelli di studio
“Perché noi serviamo per mettere al mondo figli punto. Per tutto l’ambito ginecologico dobbiamo ringraziare Trotula de Ruggeri, che è stata la prima ginecologa, la prima ‘medichessa’ come si definiva. I maschi hanno iniziato a occuparsi della materia non per salvaguardare la nostra salute, bensì la specie, per far sì che noi mettessimo al mondo figli, guerrieri. Quando si dice ‘prima le donne e i bambini’ è per questo, non per altro”.

Se c’è questa discriminazione nella sostanza è impossibile che si superi quella nella forma, e vengano quindi accattati termini come avvocata, chirurga, sindaca?
“Ma anche per i nomi neutri come presidente, in cui a definire il genere è l’articolo che precede. La lingua italiana offre tutte le soluzioni, non c’è nulla da inventare, basta non scrivere sempre ‘i cittadini’ ma si parlasse della ‘cittadinanza’. Che poi ti dà anche il senso della massa, il senso comune, la forza. Quando si parla il 25 novembre o 8 marzo, di violenza, di giornata internazionale della donna, e si dice ‘si deve cambiare la cultura’, si devono abbattere gli stereotipi culturali… E come si fa? Io non ho sentito un progetto”.

La discriminazione verso le donne parte dalla lingua, che forma il pensiero

Da dove bisognerebbe partire, secondo lei?
“Cominciamo dalle parole. Cambiare il sostantivo uomo con persona, sostituire il reato di omicidio con il reato di assassinio, non costa niente e non grava sul bilancio dello stato. Ma un segno, simbolicamente, fortissimo, importante. E può essere il primo passo per cambiare il modo di vedere e non considerare le donne”.

Un cambiamento che poi coinvolgerebbe anche il resto del sapere
“Necessariamente le altre branche, l’antropologia, la filosofia, dovranno cambiare il passo. Se quest’ultima è incentrata esclusivamente sul pensiero dell’uomo, del maschio – per non parlare delle arti – l’antropologia è ferma a Lévi-Strauss che dice che la donna ha la sua significazione solamente in quanto ‘produttrice dei desideri e dei bisogni dell’uomo’. Non abbiamo una nostra significazione”.

Lo si fa con una legge?
“Sul percorso legislativo siamo al momento ferme perché stiamo cercando di lasciare un segno, perlomeno in questa legislatura, utilizzando qualche strumento previsto dai regolamenti di camera e senato, l’argomento assegnato, in modo da poter investire una commissione del problema perché ormai i tempi sono stretti”.

E poi?
“Ad esempio sto prendendo contatti con le Commissioni Pari opportunità dell’ordine degli avvocati. Parte del nostro progetto è un po’ una provocazione per sollevare il problema, perciò mi piacerebbe fare una citazione o una denuncia, al ministero degli Interni, per violazione del diritto all’identità personale. Che è, dal punto di vista della giurisprudenza, fortemente schematizzata, esiste. Tu mi devi rappresentare esattamente per la persona che io sono: se nella carta di identità mi scrivi ‘nato il’ tu presupponi persona che io non sono. In violazione dell’articolo 3 della Costituzione ma anche dell’articolo 2, che garantisce i diritti inviolabili della persona, dell’individuo. Stiamo cercando la formula giusta”.

Il cambiamento culturale deve partire dalle parole: usciamo persona o essere umano invece di uomo

Ci racconta una delle ultime ‘battaglie’ dell’associazione?
“Ultimamente ci siamo occupate della pubblicità della Chicco diffusa per Natale 2021. Abbiamo scritto alla società Artsana una lettera, per far loro “notare che il messaggio che veicola Chicco Italia contiene tutti quegli stereotipi che caratterizzano e mortificano, in Italia, la rappresentazione e quindi la considerazione delle donne[…]”. In essa, infatti, “la Mamma è rappresentata e descritta in maniera riduttiva e subdola: oltre a saper fare solo pacchetti (sic!), inganna spacciando come suo un dolce invece acquistato. Il Papà è la figura positiva: è disponibile, alleato, si rende utile, stupisce risolve e ‘si prende cura di tu* figli* quando tu non ci sei’“. Artsana ci ha risposto in questi giorni dicendo:”…noi per primi riconosciamo, in totale onestà, che il testo possa suggerire, a chi non conosca l’azienda e il marchio, una visione dei generi e dei ruoli non allineata al nostro tempo. Ci tengo a rassicurarvi con fermezza su questo: le marche di Artsana, ciascuna con il proprio tono di voce, sono impegnate proprio nel promuovere il rifiuto degli stereotipi di genere”. Perlomeno è stato riconosciuto l’errore”.

La carne al fuoco è tanta. Come si sostiene e si promuove l’associazione?
“Abbiamo avuto il sostegno della Fondazione del Monte, di Bologna e Ravenna, una fondazione bancaria, che ci ha dato 25mila euro e grazie a quelli ho potuto cominciare, dando in carico a una società di comunicazione, la comunicazione appunto su Instagram e Facebook dell’associazione. Grazie a questo finanziamento ho preso contatto anche con l’istituto Demopolis, per fare un sondaggio anche sul percepito della discriminazione nel linguaggio nella popolazione. I dati sono incontestabili. Questo delle discriminazioni linguistiche è un problema serissimo ma che non viene percepito come tale. Per questo servono fondi, servono donazioni perché il nostro lavoro possa portare a risultati concreti. Una grande mano ce la dà BBS-Lombard, la prima società italiana tra commercialisti a diventare Società Benefit e tra le Benefit una delle primissime ad adottare uno scopo di interesse culturale. Noi non abbiamo una struttura vera e propria, servirebbero tanti soldi, ma è tosta”.

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  • Era il 1° febbraio 1945, quando la lotta per la conquista di questo diritto, partita tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scorta dei movimenti degli altri Paesi europei, raggiunse il suo obiettivo. Con un decreto legislativo, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi riconobbe il voto alle donne, su proposta di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. 

Durante la prima guerra mondiale le donne avevano sostituito al lavoro gli uomini che erano al fronte. La consapevolezza di aver assunto un ruolo ancora più centrale all’interno società oltre che della famiglia, crebbe e con essa la volontà di rivendicare i propri diritti. Già nel 1922 un deputato socialista, Emanuele Modigliani aveva presentato una proposta di legge per il diritto di voto femminile, che però non arrivò a essere discussa, per la Marcia su Roma. Mussolini ammise le donne al voto amministrativo nel 1924, ma per pura propaganda, poiché in seguito all’emanazione delle cosiddette “leggi fascistissime” tra il 1925 ed il 1926, le elezioni comunali vennero, di fatto, soppresse. Bisognerà aspettare la fine della guerra perché l’Italia affronti concretamente la questione.

Costituito il governo di liberazione nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta dell’ottobre 1944, venne avanzata dalla Commissione per il voto alle donne dell’Unione Donne Italiane (Udi), che si mobilitò per ottenere anche il diritto di eleggibilità (sancito da un successivo decreto datato 10 marzo 1946). Si arrivò così, dopo anni di battaglie per il suffragio universale, al primo febbraio 1945, data storica per l’Italia. Il decreto prevedeva la compilazione di liste elettorali femminili distinte da quelle maschili, ed escludeva però dal diritto le prostitute schedate che esercitavano “il meretricio fuori dei locali autorizzati”.

Le elezioni dell’esordio furono le amministrative tra marzo e aprile del 1946 e l’affluenza femminile superò l’89%. 

#lucenews #lucelanazione #dirittodivoto #womenrights #1febbraio1945
  • La regina del pulito Marie Kondo ha dichiarato di aver “un po’ rinunciato” a riordinare casa dopo la nascita del suo terzo figlio. La 38enne giapponese, considerata una "Dea dell’ordine", con i suoi best seller sull’economia domestica negli ultimi anni ha incitato e sostenuto gli sforzi dei comuni mortali di rimettere in sesto case e armadi all’insegna del cosa “provoca dentro una scintilla di gioia”. Ma l’esperta di decluttering, famosa in tutto il mondo, ha ammesso che con tre figli da accudire, la sua casa è oggi “disordinata”, ma ora il riordino non è più una priorità. 

Da quando è diventata madre di tre bambini, ha dichiarato che il suo stile di vita è cambiato e che la sua attenzione si è spostata dall’organizzazione alla ricerca di modi semplici per rendere felici le abitudini di tutti i giorni: "Fino a oggi sono stata una organizzatrice di professione e ho dunque fatto il mio meglio per tenere in ordine la mia casa tutto il tempo”, e anche se adesso “ci ho rinunciato, il modo in cui trascorro il mio tempo è quello giusto per me in questo momento, in questa fase della mia vita”.

✍ Marianna Grazi 

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  • La second hand, ossia l’oggetto di seconda mano, è una moda che negli ultimi anni sta diventando sempre più un’abitudine dei consumatori. Accumulare roba negli armadi, nei cassetti, in cantina, non è più un disagio che riguarda soltanto chi soffre di disposofobia, ossia di chi è affetto da sindrome dell’accumulatore compulsivo. Se l’acquisto è l’unica azione che rende felice l’uomo moderno, non riuscire a liberarsene è la condanna di molti.

Secondo quanto emerge dall’Osservatorio Second-hand Economy 2021, realizzato da BVA Doxa per Subito.it, sono 23 milioni gli italiani che, nel 2021, hanno fatto ricorso alla compravendita di oggetti usati grazie alle piattaforme online. Il 52% degli italiani ha comprato e/o venduto oggetti usati, tra questi il 15% lo ha fatto per la prima volta. L’esperienza di compravendita online di second hand è quella preferita, quasi il 50% degli affari si conclude online anche perché il sistema di vendita è simile a un comune eCommerce: internet è il canale più veloce per quasi la metà dei rispondenti (49%), inoltre offre una scelta più ampia (43%) e si può gestire comodamente da casa (41%). Comprare second hand diventa una sana abitudine che attrae ogni anno nuove persone, è al terzo posto tra i comportamenti sostenibili più messi in atto dagli italiani (52%) – preceduto sempre dalla raccolta differenziata (94%) e l’acquisto di lampadine a LED (71%) –, con picchi ancora più alti di adozione nel 2021 da parte dei laureati (68%), di chi appartiene alla generazione Z (66%), di chi ha 35-44 anni (70%) e delle famiglie con bambini (68%). 

Ma perché concretamente si acquista l’usato? Nel 2021 le prime tre motivazioni che inducono a comprare beni usati sono: il risparmio (56%, in crescita di 6 punti percentuali rispetto al 2020), l’essere contrari agli sprechi e credere nel riuso (49%) e la convinzione che la second hand sia un modo intelligente di fare economia e che rende molti oggetti più accessibili (43%). 

✍E tu? Hai mai comprato accessori oppure oggetti di seconda mano? Cosa ne pensi?

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  • È iniziata come una sorta di sfida personale, come spesso accade tra i ragazzi della sua età, per testare le proprie capacità e resistenza in modo divertente. Poi però, per Isaac Ortman, adolescente del Minnesota, dormire nel cortile della sua casa è diventata una missione. 

“Non credo che la cosa finisca presto, potrei anche continuare fino all’università – ha detto il 14enne di Duluth -. È molto divertente e non sono pronto a smettere”. 

Tanto che ormai ha trascorso oltre 1.000 notti sotto le stelle. Il giovane, che fa il boy scout, come una specie di moderno Barone Rampante ha scoperto per caso il piacere di trascorrere le ore di sonno fuori dalle mura di casa, persino quando la temperatura è scesa a quadi 40 gradi sotto lo zero. Tutto è iniziato circa tre anni fa, nella baita della sua famiglia a 30 miglia da casa, diventando ben presto una routine notturna. Il giovane Ortman ricorda bene il giorno in cui ha abbandonato la sua camera da letto per un’amaca e un sacco a pelo, il 17 aprile 2020, quando era appena in prima media: “Stavo dormendo fuori dalla nostra baita e ho pensato: ‘Wow, potrei provare a dormire all’aperto per una settimana’. Così ho fatto e ho deciso di continuare”. 

“Non si stanca mai: ogni notte è una nuova avventura“, ha detto il padre Andrew Ortman, 48 anni e capo del suo gruppo scout. 

Sua mamma Melissa era un po’ preoccupata quella notte, lei e il padre gli hanno permesso di continuare la sua routine. “Sa che deve entrare in casa se qualcosa non va bene. Dopo 1.000 notti, ha la nostra fiducia. Da quando ha iniziato a farlo, è cresciuto sotto molti aspetti, e non solo in termini di statura”, dice orgogliosa. 

“Non lo sto facendo per nessun record o per una causa, mi sto solo divertendo. Ma con il ragazzo che dorme in Inghilterra, credo si possa dire che si tratta di una gara non ufficiale”, ha detto Isaac riferendosi all’adolescente inglese Max Woosey, che ha iniziato la sua maratona di sonno all’aperto il 29 marzo 2020, con l’obiettivo di raccogliere fondi per un ospedale che cura un suo anziano amico.

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"Le parole esistono, vanno utilizzate". Se di discriminazione si parla sempre di più, purtroppo o per fortuna, bisogna anche chiedersi quanto di questo fenomeno sia influenzato dalla cultura di ogni persona. E di conseguenza dal pensiero e sì, anche dalla lingua che parla. "La nostra visione del mondo, il nostro pensiero, la mappa che abbiamo delle persone, viene dalle parole che ascoltiamo, che leggiamo. Le parole sono tutto". A dirlo è Maria Tiziana Lemme, giornalista e fondatrice insieme a Amalia Signorelli dell’associazione culturale Femminile Maschile Neutro, della quale è presidente. "Le parole hanno significati profondi. In opposizione al sostantivo ‘uomo’ usato a significare ‘essere umano’, noi vogliamo che si adotti, nei codici e nelle leggi, il sostantivo ‘persona’, il cui significato è universale. Siamo tutte persone, ma in Italia le donne sono sempre chiamate uomini. Nelle leggi una virgola ti può cambiare il significato totale di una frase e quelle italiane sono tutte declinate al maschile - sostiene la presidente -. Tutto ciò che non si dice non esiste. Tutto ciò che non si scrive non viene considerato".
Maria Tiziana Lemme, presidente dell'associazione "Femminile Maschile Neutro"
Un retaggio culturale che ci portiamo dietro da sempre, per cui i diritti umani diventano diritti 'dell'uomo' (ad esempio nell'errata ratifica,  nel 1954, della Convention for the protection of human rights and fundamental freedoms) o all’articolo 575 del codice penale, che riguarda l’omicidio – etimologicamente 'uccisione di un uomo' – che recita: "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con…". Quindi se anche le donne possono essere vittime di uccisione (si dovrebbe quindi far riferimento ad assassinio) è per bontà dei giudici e dell'interpretazione estensiva di un codice rigido. "Nessun Paese, nemmeno la Siria, definisce l'essere umano uomo, in merito a questo reato", continua Maria Tiziana. Nella 2017 lei e Amalia Signorelli, "un’antropologa ma soprattutto una miniera di conoscenze (scomparsa lo stesso anno, ndr)" hanno fondato Femminile Maschile Neutro, con l'obiettivo di cambiare proprio questo status quo, partendo da quelle piccole cose di cui non ci accorgiamo e che soprattutto tanto piccole non sono. "Tanto il femminile è nascosto nella nostra lingua quanto il maschile viene assolutamente occultato quando si parla di ‘violenza sulle donne’. Si usa infatti la locuzione, poco chiara, 'violenza di genere' per cui l’agente, il maschio che fa violenza, non viene mai citato se non con termini neutri quale ‘ex’ o ‘partner’. Con Valeria Fedeli prima e con Titti di Salvo poi, nel 2017, abbiamo lavorato ad una proposta di legge da depositare in Parlamento (decreto 4643/17) che prevede l’introduzione dell’aggettivo ‘maschile’ nella normativa inerente alla violenza sulle donne". Una proposta che le cronache ci insegnano è ancora lontana dall'essere approvata e adottata, ma qualcosa si muove: "Sono felice che un mese fa il ministero per le pari opportunità abbia varato il 'Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne'. È la prima volta che questo aggettivo entra in un atto ufficiale".

Dottoressa Lemme, la discriminazione parte dalla parola? "È il pensiero che si forma. Il linguaggio forma il nostro pensiero e come non potrebbe essere altrimenti? Tutta questa situazione linguistica e discriminante si ripercuote nella condizione sociale ed economica delle donne (il gender gap italiano è il più alto fra i paesi industrializzati al 19,8%). Quando si parla di parole nelle leggi soprattutto una virgola ti può cambiare il significato totale di una frase e già le leggi italiane sono tutte declinate al maschile. Tutto ciò che non si dice non esiste. Tutto ciò che non si scrive non viene considerato".  Tutta questa negazione del femminile dalla nostra lingua si nota fin dalle basi. Ci fa qualche esempio? "A scuola viene insegnato a declinare i verbi al maschile. I pronomi personali femminili non vengono mai utilizzati, sembrano quasi un'eccezione. Poi, gravissima, la negazione del femminile sulla carta di identità: nel nostro principale documento, attestazione della nostra identità personale, noi donne su quella cartacea abbiamo "nato il", la firma è "del titolare", si è "donatore di organi" e anche sulla carta elettronica la firma è "del titolare". E ancora i sinonimi di donna, in Treccani, fino a pochi mesi fa erano insulti: si parlava di 'cagna, troia, vacca, zoccola, puttana e via dicendo'. Ci fu quella lettera aperta, a firma di alcune linguiste e anche della vice direttrice della banca d'Italia e i termini 'cagna' e 'vacca' sono stati tolti, ma alla prima voce è rimasto il rimando alla donna e soprattutto tra i sinonimi di donna c'è ancora prostituta e donna di strada. Il linguaggio è androcentrico ma gli insulti sono ginocentrici".
Nella lingua italiana corrente così come nei testi dei codici, delle leggi, amministrativi o scolastici il femminile è inglobato nel maschile
Quindi la donna è oggetto 'di piacere' o di desiderio dell'uomo ma non soggetto? "Guardiamo alla definizione del sostantivo donna. Sempre su Treccani, 'nella specie umana' è considerata donna 'l'individuo di sesso femminile soprattutto al raggiungimento della maturità anatomica e dunque dell'età adulta. Si contrappone a uomo in espressioni come 'scarpe, borse, orologi da donna'. Una definizione scritta nella prima metà degli anni '50. Si deve notare intanto che viene utilizzato il sostantivo individuo, che si usa anche per gli animali; e poi il fatto che siamo considerate adulte, quindi individui riconosciuti, solo dopo lo sviluppo, quando possiamo procreare (la nostra maturità anatomica). Le definizioni di uomo non contemplano nulla di tutto ciò: "è dotato di morale, di etica, capacità di distinguere il bene dal male", tutte caratteristiche della persona che alla donna, nella definizione, non vengono riconosciute. Insomma la donna è colei che deve fare figli. Alla stregua di un animale". Tutte queste cose di cui stiamo parlando si riversano nel linguaggio corrente? “Certo, nel linguaggio dei giornali e dei testi, nella considerazione filosofica e antropologica, persino nella medicina si riscontra la mancata considerazione della donna. Ci sono dei dati incredibili di donne morte per infarto, non avendo mai studiato il corpo femminile. Io non dimenticherò mai quando il presidente della Farmindustria disse ‘Ci siamo accorti che le donne non sono uomini con le gonne’. Adesso hanno capito che il corpo della donna non è uguale a quello dell’uomo, che i sintomi dell’infarto, ad esempio, sono differenti da quelli dell’uomo. Ma si chiama 'medicina di genere'. Noi siamo come i panda, ma nemmeno protette”. Sembra quasi che le donne non siano mai esistite e di conseguenza non siano mai state studiate per farne dei modelli di studio “Perché noi serviamo per mettere al mondo figli punto. Per tutto l’ambito ginecologico dobbiamo ringraziare Trotula de Ruggeri, che è stata la prima ginecologa, la prima ‘medichessa’ come si definiva. I maschi hanno iniziato a occuparsi della materia non per salvaguardare la nostra salute, bensì la specie, per far sì che noi mettessimo al mondo figli, guerrieri. Quando si dice ‘prima le donne e i bambini’ è per questo, non per altro”. Se c’è questa discriminazione nella sostanza è impossibile che si superi quella nella forma, e vengano quindi accattati termini come avvocata, chirurga, sindaca? “Ma anche per i nomi neutri come presidente, in cui a definire il genere è l’articolo che precede. La lingua italiana offre tutte le soluzioni, non c’è nulla da inventare, basta non scrivere sempre ‘i cittadini’ ma si parlasse della ‘cittadinanza’. Che poi ti dà anche il senso della massa, il senso comune, la forza. Quando si parla il 25 novembre o 8 marzo, di violenza, di giornata internazionale della donna, e si dice ‘si deve cambiare la cultura’, si devono abbattere gli stereotipi culturali… E come si fa? Io non ho sentito un progetto”.
La discriminazione verso le donne parte dalla lingua, che forma il pensiero
Da dove bisognerebbe partire, secondo lei? “Cominciamo dalle parole. Cambiare il sostantivo uomo con persona, sostituire il reato di omicidio con il reato di assassinio, non costa niente e non grava sul bilancio dello stato. Ma un segno, simbolicamente, fortissimo, importante. E può essere il primo passo per cambiare il modo di vedere e non considerare le donne”. Un cambiamento che poi coinvolgerebbe anche il resto del sapere “Necessariamente le altre branche, l’antropologia, la filosofia, dovranno cambiare il passo. Se quest’ultima è incentrata esclusivamente sul pensiero dell’uomo, del maschio - per non parlare delle arti - l’antropologia è ferma a Lévi-Strauss che dice che la donna ha la sua significazione solamente in quanto ‘produttrice dei desideri e dei bisogni dell’uomo’. Non abbiamo una nostra significazione”. Lo si fa con una legge? “Sul percorso legislativo siamo al momento ferme perché stiamo cercando di lasciare un segno, perlomeno in questa legislatura, utilizzando qualche strumento previsto dai regolamenti di camera e senato, l’argomento assegnato, in modo da poter investire una commissione del problema perché ormai i tempi sono stretti". E poi? “Ad esempio sto prendendo contatti con le Commissioni Pari opportunità dell’ordine degli avvocati. Parte del nostro progetto è un po' una provocazione per sollevare il problema, perciò mi piacerebbe fare una citazione o una denuncia, al ministero degli Interni, per violazione del diritto all’identità personale. Che è, dal punto di vista della giurisprudenza, fortemente schematizzata, esiste. Tu mi devi rappresentare esattamente per la persona che io sono: se nella carta di identità mi scrivi ‘nato il’ tu presupponi persona che io non sono. In violazione dell’articolo 3 della Costituzione ma anche dell’articolo 2, che garantisce i diritti inviolabili della persona, dell’individuo. Stiamo cercando la formula giusta”.
Il cambiamento culturale deve partire dalle parole: usciamo persona o essere umano invece di uomo
Ci racconta una delle ultime 'battaglie' dell'associazione? "Ultimamente ci siamo occupate della pubblicità della Chicco diffusa per Natale 2021. Abbiamo scritto alla società Artsana una lettera, per far loro "notare che il messaggio che veicola Chicco Italia contiene tutti quegli stereotipi che caratterizzano e mortificano, in Italia, la rappresentazione e quindi la considerazione delle donne[...]". In essa, infatti, "la Mamma è rappresentata e descritta in maniera riduttiva e subdola: oltre a saper fare solo pacchetti (sic!), inganna spacciando come suo un dolce invece acquistato. Il Papà è la figura positiva: è disponibile, alleato, si rende utile, stupisce risolve e 'si prende cura di tu* figli* quando tu non ci sei'". Artsana ci ha risposto in questi giorni dicendo:"...noi per primi riconosciamo, in totale onestà, che il testo possa suggerire, a chi non conosca l'azienda e il marchio, una visione dei generi e dei ruoli non allineata al nostro tempo. Ci tengo a rassicurarvi con fermezza su questo: le marche di Artsana, ciascuna con il proprio tono di voce, sono impegnate proprio nel promuovere il rifiuto degli stereotipi di genere". Perlomeno è stato riconosciuto l’errore". La carne al fuoco è tanta. Come si sostiene e si promuove l’associazione? “Abbiamo avuto il sostegno della Fondazione del Monte, di Bologna e Ravenna, una fondazione bancaria, che ci ha dato 25mila euro e grazie a quelli ho potuto cominciare, dando in carico a una società di comunicazione, la comunicazione appunto su Instagram e Facebook dell’associazione. Grazie a questo finanziamento ho preso contatto anche con l’istituto Demopolis, per fare un sondaggio anche sul percepito della discriminazione nel linguaggio nella popolazione. I dati sono incontestabili. Questo delle discriminazioni linguistiche è un problema serissimo ma che non viene percepito come tale. Per questo servono fondi, servono donazioni perché il nostro lavoro possa portare a risultati concreti. Una grande mano ce la dà BBS-Lombard, la prima società italiana tra commercialisti a diventare Società Benefit e tra le Benefit una delle primissime ad adottare uno scopo di interesse culturale. Noi non abbiamo una struttura vera e propria, servirebbero tanti soldi, ma è tosta”.
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