"Le parole esistono, vanno utilizzate". Se di discriminazione si parla sempre di più, purtroppo o per fortuna, bisogna anche chiedersi quanto di questo fenomeno sia influenzato dalla cultura di ogni persona. E di conseguenza dal pensiero e sì, anche dalla lingua che parla. "La nostra visione del mondo, il nostro pensiero, la mappa che abbiamo delle persone, viene dalle parole che ascoltiamo, che leggiamo. Le parole sono tutto". A dirlo è Maria Tiziana Lemme, giornalista e fondatrice insieme a Amalia Signorelli dell’associazione culturale Femminile Maschile Neutro, della quale è presidente. "Le parole hanno significati profondi. In opposizione al sostantivo ‘uomo’ usato a significare ‘essere umano’, noi vogliamo che si adotti, nei codici e nelle leggi, il sostantivo ‘persona’, il cui significato è universale. Siamo tutte persone, ma in Italia le donne sono sempre chiamate uomini. Nelle leggi una virgola ti può cambiare il significato totale di una frase e quelle italiane sono tutte declinate al maschile - sostiene la presidente -. Tutto ciò che non si dice non esiste. Tutto ciò che non si scrive non viene considerato".
Un retaggio culturale che ci portiamo dietro da sempre, per cui i diritti umani diventano diritti 'dell'uomo' (ad esempio nell'errata ratifica, nel 1954, della Convention for the protection of human rights and fundamental freedoms) o all’articolo 575 del codice penale, che riguarda l’omicidio – etimologicamente 'uccisione di un uomo' – che recita: "Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con…". Quindi se anche le donne possono essere vittime di uccisione (si dovrebbe quindi far riferimento ad assassinio) è per bontà dei giudici e dell'interpretazione estensiva di un codice rigido. "Nessun Paese, nemmeno la Siria, definisce l'essere umano uomo, in merito a questo reato", continua Maria Tiziana. Nella 2017 lei e Amalia Signorelli, "un’antropologa ma soprattutto una miniera di conoscenze (scomparsa lo stesso anno, ndr)" hanno fondato Femminile Maschile Neutro, con l'obiettivo di cambiare proprio questo status quo, partendo da quelle piccole cose di cui non ci accorgiamo e che soprattutto tanto piccole non sono. "Tanto il femminile è nascosto nella nostra lingua quanto il maschile viene assolutamente occultato quando si parla di ‘violenza sulle donne’. Si usa infatti la locuzione, poco chiara, 'violenza di genere' per cui l’agente, il maschio che fa violenza, non viene mai citato se non con termini neutri quale ‘ex’ o ‘partner’. Con Valeria Fedeli prima e con Titti di Salvo poi, nel 2017, abbiamo lavorato ad una proposta di legge da depositare in Parlamento (decreto 4643/17) che prevede l’introduzione dell’aggettivo ‘maschile’ nella normativa inerente alla violenza sulle donne". Una proposta che le cronache ci insegnano è ancora lontana dall'essere approvata e adottata, ma qualcosa si muove: "Sono felice che un mese fa il ministero per le pari opportunità abbia varato il 'Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne'. È la prima volta che questo aggettivo entra in un atto ufficiale".
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