Non si sa se sia più una provocazione o un autogol, ma presentare al Festival della canzone Italiana un brano cantato in napoletano stretto sembra essere più divisivo che inclusivo, almeno per quelli che non masticano a dovere il dialetto partenopeo. Non si sa se Geolier sia stato preso dalla smania di rispolverare (e rilanciare sotto altre spoglie) il Festival della canzone napoletana (la competizione canora nata a Napoli nel 1952 e cessata nel 1971), ma sicuramente dovremo stare col traduttore stretto in mano quando lui canterà sul palco dell’Ariston la sua "I p’ me, tu p te".
E bisognerà anche prepararsi per bene prima, visto che online sono pochi i traduttori che funzionano a dovere e quasi nessun link sembra adatto a tradurre testi medio lunghi dal napoletano all’italiano.
"Con I p’me, tu p’te porto Napolia Sanremo"
Sia come sia, con il brano "I p’me, tu p’te" Emanuele Palumbo (questo il nome vero del rapper partenopeo) rivendica l’obiettivo non celato, anzi strombazzato ai quattro venti, di voler portare Napoli e il napoletano a Sanremo. Poi c’è da capire se la canzone, anche se piacesse molto durante i cinque giorni di Festival, da chi verrebbe in seguito cantata, quindi quale sia il reale bacino di audience per un brano del genere. Anche perché è impensabile che possa rimanere relegato solo alle strade di Forcella, Secondigliano, Scampia o al Quartiere Sanità.L’altro problema l’ha creato chi ha ammesso questa canzone in napoletano al Festival, permettendo che gareggiasse con le altre in italiano, perché questo crea un precedente che potrebbe stravolgere la dinamica e il significato stesso della kermesse. Insomma il confine tra completo disastro e prima volta che fa la storia è assai labile, ma fino all'ultimo non è detta l'ultima parola: starà all'Ariston, come ogni anno, pronunciare il suo verdetto, ma saranno poi gli ascolti sulle piattaforme streaming, alla radio e le presenze ai concerti a stabilire il successo o meno del pezzo.Visualizza questo post su Instagram