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“Nel ‘44 il mio bisnonno salvò una famiglia di ebrei nascondendoli in una stanza di casa”

La storia di Giustino Di Nisio e del suo coraggio, quando nella primavera del ’44 rischiò la vita della sua famiglia per nascondere all’esercito nazista una famiglia di clandestini

di CATERINA CECCUTI -
25 aprile 2024
Giustino Di Nisio con il figlio sacerdote Nicola

Giustino Di Nisio con il figlio sacerdote Nicola

Dalla guerra vengono dolore, morte e distruzione. Non importa di quale conflitto si stia parlando, non importa a quale epoca ci si riferisca. Ci sono però anche altre parole che le si legano a meraviglia, meno immediate, meno impattanti, ma comunque indubitabili nelle testimonianze di quanti, la guerra, l’hanno vissuta e attraversata sulla propria pelle: amore, coraggio, altruismo.

Personalmente, questa cosa l’ho imparata ascoltando fin da piccola i racconti di mia madre Vienda (classe 1947), che con un pizzico di ammirazione raccontava la storia della nostra famiglia, attraverso il coraggio e le imprese di suo nonno Giustino.

Non era stato un soldato combattente durante la Seconda guerra mondiale. Ormai già in là con l’età, aveva combattuto invece nel conflitto del ’15-’18. Uomo di consolidata fede cattolica, Giustino Di Nisio abitava a Chieti, in Abruzzo, con sua moglie Maria e tre figli che erano stati cresciuti all’insegna dei principi della devozione e della carità cristiana, tanto che la maggiore era diventata suora di semi clausura ad appena diciotto anni, ed il più giovane si era fatto prete.

Giustino e Maria Di Nisio nel corso di una funzione religiosa a Chieti
Giustino e Maria Di Nisio nel corso di una funzione religiosa a Chieti

Mia nonna Eglantina fu ad un passo dall’entrare in convento pure lei, ma Giustino ritenne di aver devoluto al Signore una parte sufficiente della propria prole, per cui la supplicò di aspettare ancora qualche anno prima di prendere una decisione. All’epoca della seconda Grande Guerra, dunque, mia nonna viveva ancora a casa dei genitori.

Li murò dentro una stanza per salvarli

Siamo nella primavera del 1944, Chieti sarebbe stata liberata dagli Alleati solo ad inizio giugno. Alla parrocchia di mio zio Nicola bussavano in tanti, dai partigiani feriti agli ebrei in fuga. In particolare una famiglia composta da padre, madre e una giovane non ancora maggiorenne, che cercavano rifugio dai nazisti e dai fedelissimi del Duce rimasti ancora in città, i quali effettuavano incursioni quasi quotidiane nelle case e nelle chiese, in cerca di “traditori”. Mio zio chiese aiuto al padre Giustino “Devi nascondere questa famiglia in casa con voi.” E lui non battè ciglio.

Una notte di aprile del 1944, quando la piccola città abruzzese dormiva silenziosa, con l’aiuto del figlio Nicola fece entrare in casa la famiglia di ebrei, li fece sistemare insieme alle loro poche cose in una stanza della casa dotata di servizio igienico ma priva di finestre, e li murò dentro con mattoni e calcina. L’unica apertura rimasta era un buco nella parete della dimensione di 35x35 cm, comunicante con la cucina di Giustino e di Maria, attraverso la quale ogni notte ed ogni mattina i due facevano passare cibo e generi di prima necessità per la sopravvivenza degli ospiti clandestini.

Qualsiasi rumore poteva essere rischioso

La famiglia di ebrei rimase nascosta in quella stanza murata e senza finestre per settimane, fino appunto all’arrivo degli alleati e alla liberazione della città. Nessun rumore doveva essere fatto, nessuna parola scambiata. A Chieti le pareti avevano orecchi, nella piccola città tutti conoscevano i movimenti di tutti e il rischio delle delazioni era altissimo: eventuali “meriti”, in epoca di guerra e di miseria, facevano gola a tanti. Dunque, bisogna considerare che a rischiare la vita non erano solamente i tre clandestini, ma i miei bisnonni in prima persona: se fossero stati scoperti avrebbero potuto essere fucilati dalle milizie naziste.

Giustino con mia madre Vienda nel giorno della sua prima Comunione
Giustino con mia madre Vienda nel giorno della sua prima Comunione

Per coprire il piccolo buco che separava la stanza murata dalla cucina dei miei bisnonni, Giustino aveva appeso un quadro della “Madonna della pace”, che fortunatamente nessun soldato nazista ebbe l’intuizione di spostare, durante gli svariati blitz che vennero fatti in quelle settimane.

Il 9 giugno 1944 l’arrivo degli alleati

Il giorno in cui gli alleati arrivarono in città, il 9 giugno 1944, mio nonno buttò giù il muro, trovandosi dinanzi tre persone provate da una lunga condizione di reclusione, dalla poca aria filtrata con fatica dalla crepe e dalle spaccature del muro esterno, ma ancora vive. Con le lacrime agli occhi la giovane ebrea ebbe l’impulso di abbracciare Giustino e Maria, rubando all’emozione del momento la forza per sussurrare un “Grazie”. E il mio bisnonno prontamente rispose soltanto: “Non devi ringraziare me, ma Lei”, indicando la Madonnina ritratta sul quadro. “Portala con te, e ricordati sempre che è stata la Vergine a salvarti la vita”.