Un’avvocata che difende un uomo accusato di stupro, contraddizione? Ecco perché no...

Il caso dell’avvocata contestata perché difende un uomo accusato di violenza sessuale, solleva interrogativi etici e giuridici sul ruolo della difesa e sulle implicazioni emotive di tale scelta, soprattutto per una donna

di MARGHERITA AMBROGETTI DAMIANI
8 novembre 2024
Avvocata in uno studio (foto di repertorio)

Avvocata in uno studio (foto di repertorio)

Qualche giorno fa un’avvocata è stata contestata alla fine di un’udienza in Corte d’Appello di Firenze, in quanto rappresentante legale di un ragazzo a processo per violenza sessuale. Un episodio che a nostro avviso pone al centro del dibattito una questione etica, legale e sociale di grande rilevanza: può una donna, con la sua sensibilità e le sue esperienze, difendere un uomo accusato di stupro o di femminicidio?

Le accuse e le contestazioni, quando arrivano, sembrano chiedere un giudizio morale sul ruolo professionale. Il punto è che la difesa di un colpevole non è mai - o almeno non dovrebbe essere - una questione di approvazione del crimine commesso. È, invece, il cuore pulsante di un sistema giuridico che deve preservare i principi fondamentali del diritto alla difesa, dell’imparzialità e dell’indipendenza della giustizia. Ma questo principio universale non può prescindere dalle sue implicazioni più profonde quando riguarda una donna che difende un uomo accusato di crimini sessuali.

Il primo interrogativo che sorge spontaneo riguarda l’aspetto morale della questione: la difesa di un imputato accusato di stupro e violenza sessuale può essere percepita come una contraddizione se ad esercitarla è una donna? La società stessa può interpretare il gesto della difesa come un tradimento della solidarietà femminile nei confronti delle vittime. È comprensibile, in un certo senso, che una donna, come ogni persona che abbia vissuto sulla propria pelle il peso della violenza di genere, possa trovare difficoltà nel difendere un uomo accusato di aver perpetrato abusi sessuali. Ma questa è - o almeno dovrebbe essere - la chiave di volta del sistema giuridico che distingue tra il giudizio del tribunale e la reazione emotiva.

Il principio di equità

I difensori sono chiamati a garantire che gli imputati possano usufruire di tutte le tutele previste dalla legge, senza pregiudizi o influenze esterne. Una difesa giuridica, quindi, non equivale a un’apologia del crimine, ma è il fondamento su cui si basa il principio di equità del processo penale su cui si regge il nostro Stato di diritto. Il sistema legale esige che tutte le persone siano trattate con equità, che possano ricevere un processo giusto e che non vengano private della loro difesa. In caso contrario, il rischio di deviare dalla giustizia stessa diventerebbe concreto.

Eppure, nel caso di una donna che difende un uomo accusato di stupro, la questione si carica di ulteriori significati e le nostre certezze iniziano a vacillare. La domanda che ci si pone non riguarda tanto la legittimità di difendere un aggressore sessuale, quanto il contesto sociale ed emotivo che rende questa difesa più difficile. La sfida che abbiamo davanti riguarda la possibilità di bilanciare l’imparzialità e il rispetto per il sistema giuridico con la comprensione delle implicazioni emotive e morali che reati così gravi suscitano. Imporre difensori di un solo sesso o limitare la difesa non farebbe altro che introdurre una forma di giustizia distorta, fondata sull'emotività piuttosto che sulla razionalità della legge. La questione è delicata e complessa.