“Lei ha una sola opzione: resistere e essere forte”. Lei è Cecilia Sala, la giornalista italiana detenuta a Teheran dal 19 dicembre, invece a parlare all'Ansa è Kylie Moore Gilbert, giurista australiana che dal settembre del 2018 al novembre 2020 è stata imprigionata in Iran con l'accusa di spionaggio. Tenuta in isolamento nel settore 2A della prigione di Evin, la stessa in cui è rinchiusa ora la reporter 29enne.
“L'Italia non ha alternativa, non può estradare Abedini e deve trovare un accordo con l'Iran per far rilasciare Cecilia. È la cosa migliore da fare ora", dice ancora Moore Gilbert, che fu liberata dopo il rilascio di tre cittadini iraniani da parte della Thailandia. “Lo scambio di prigionieri fu, di fatto, l'unica opzione nel mio caso, ma anche nei casi dell'olandese Johann Floderus e del belga Olivier Vandecasteele: gli iraniani cercano proprio persone di alcune nazionalità perché hanno più valore, sono più utili per fare pressioni e cercare di ottenere ciò che vogliono. È successo a me, è successo a Cecilia".
“Incentivata la diplomazia degli ostaggi, rafforza il regime”
La giurista australiana non nasconde però che, pur se l'imperativo è "salvare i cittadini e salvare Cecilia", cedere alle pressioni iraniane significa "rafforzare il regime autoritario della Repubblica islamica il cui consenso viene accresciuto da questi risultati che vengono visti come successi politici". Di più: "Viene incentivata la diplomazia degli ostaggi che invece andrebbe combattuta dall'occidente".
Kylie sa cosa vuol dire l'inferno di Evin. Un inferno che ha dovuto conoscere per un tempo lunghissimo, imparando a prendere delle contromisure per sopravvivere. “Sono passati oltre sei anni dalla mia detenzione a Evin eppure ancora ricordo quando fui catturata, bendata e messa in auto tra due guardie donne – spiega – arrivata in carcere mi hanno portato nell'ufficio del magistrato. Non mi tradussero nulla, non capivo nulla, non capivo il farsi. Disposero la mia detenzione nel settore 2A di Evin, che è gestito dalle Guardie della Rivoluzione. Ero scossa, scioccata, iniziai a piangere istericamente. A quel punto mi buttarono fuori dall'ufficio del magistrato e mi trovai a piangere nel corridoio su una panca controllata da una guardia".
Il terrore è di casa a Evin
Evin, ricorda Kylie, “sono muri altissimi e filo spinato e il terrore costante di chiedersi 'ora che mi faranno? Mi condanneranno a morte? Mi uccideranno?'”. Da tutta questa violenza e paura "se ne esce solo restando saldi, senza cedere mai ma queste sono cose che capisci dopo: quando sei lì dentro, con le torture psicologiche costanti, non hai tanta scelta e devi comunque andare avanti. Anche se non hai la forza, non puoi fare altro. Io ho deciso di non farmi più domande, di non pensare al passato o al futuro e di concentrarmi sul momento che vivevo scegliendo, ad esempio, di sposare la routine della prigione. Il mio tempo futuro finiva al massimo al giorno seguente”.
Tutte cose che Kylie ha imparato col tempo, due anni di isolamento. "I primi tempi sono i più duri perchè ti fanno pressioni di ogni tipo, cercano di debilitarti psicologicamente per portarti al punto di rottura durante gli interrogatori ma ci devi passare e uscirne vivo", dice. "Per questo idealmente dico a Cecilia di resistere, essere forte, e scoprirà di essere più forte di quanto poteva immaginare. Da queste esperienze se ne esce migliori, più consapevoli dei propri limiti e delle proprie qualità. Evin è un inferno ma si cresce anche all'inferno - dice Kylie che aggiunge - e, anche se si è prigionieri, si può scegliere di non cedere mai: mai fare false confessioni, mai cedere alle pressioni negli interrogatori. Cedere serve solo per dargli la possibilità di alzare la posta. Cecilia non è sola, il suo paese sta lavorando per lei".