“Evin simbolo di oppressione”. Rahamani sull’arresto di Cecilia Sala: “Fa pensare a un ricatto”

Il giornalista e attivista iraniano, marito della premio Nobel per Narges Mohammadi, in esilio dal 2012, commenta l’incarcerazione della reporter romana nella prigione di Teheran

di Redazione Luce!
28 dicembre 2024

“Il modus operandi è quello dell'intelligence e dei Pasdaran: un arresto a sorpresa, celato per diversi giorni, il capo d'accusa che, per quanto ne sappiamo, resta ancora sconosciuto. Questa storia fa pensare a un ricatto. Se le autorità di Evin hanno cercato un contatto con l'ambasciata italiana vuol dire che stanno esplorando una via di dialogo”. Lo spiega in un'intervista a La Stampa Taghi Rahmani, giornalista e attivista in esilio dal 2012, oltre che marito della premio Nobel per la Pace 2023 Narghes Mohammadi (scarcerata temporaneamente per problemi di salute), che non vede da allora.

Rahamani commenta così l’arresto, avvenuto il 19 dicembre scorso ma di cui si è venuti a conoscenza solo ieri, della giornalista italiana Cecilia Sala. “Se si dovesse parlare di spionaggio sarebbe allarmante, lo spionaggio a favore di Paesi non nemici come l'Italia prevede una pena dai 7 ai 10 anni, ma quello a favore d'Israele evoca la pena capitale –prosegue –. Se, come nel caso di Alessia Piperno, non ci dovesse essere un processo invece, sarebbe più semplice. Di certo a Teheran hanno già pianificato la strategia. Per ora temo che resterà in cella, la interrogheranno cercando farle dire cose da usare contro di lei”, aggiunge parlando ancora della giornalista romana che, da quanto sappiamo, si trova in una cella di isolamento nel carcere di Teheran. 

“All’indomani dell’arresto di due iraniani a Milano su mandato americano ecco la risposta, la giornalista italiana ha fatto al caso loro, le date coincidono – spiega ancora Taghi Rahmani –. È possibile che abbiano fermato Sala in tutta fretta per negoziare con Roma prima dell'estradizione”.

Evin è il simbolo dell'oppressione. Negli anni '80 ospitava fino a 70 esecuzioni al giorno, quando ero lì nel 1988, uno dei miei tanti soggiorni, vidi portare via i miei compagni uno dopo l'altro: eravamo 50 e rimanemmo vivi in due – conclude –. Il popolo è riuscito a guadagnare terreno sul regime ma su Evin no”.