Il suo sogno era costruire case, progettare pezzi di città, aggiungere bellezza alla bellezza di una delle città più incantevoli del mondo, Firenze. Un sogno che
Guido De Barros stava realizzando quand’era appena un giovane fresco di laurea. Il suo talento fu notato da uno dei più ambiti studi di architettura, che lo volle tra i suoi. Sfogliando l’album dei ricordi felici, la prima foto è scattata in un giorno d’estate e di sole, con lo scambio di anelli sotto l’altare di quella
Basilica di San Miniato che da secoli sovrasta e benedice la città. Lo sfoglio ancora, entro nella sua casa in centro, un piccolo nido d’amore con vista Duomo, dove la vita scorre tranquilla e felice. Quando scelse il nome della sua bambina, nata ad appena un anno dal matrimonio, non poteva immaginare che quel nome sarebbe diventato un simbolo. Per cui l’Italia intera, commossa, avrebbe pianto e pregato:
Sofia.
Guido + Caterina = Sofia
Guido de Barros e fua figlia Sofia, affetta da una malattia ad esito infausto, la Leucodistrofia Metacromatica. Una malattia genetica rara e neuro degenerativa, di quelle per cui al momento, se non diagnosticata alla nascita, non esiste cura al mondo
Il resto è storia: la bimba che da un giorno all’altro si ammala, quando aveva appena un anno e mezzo. Da allora in poi, non si contano le visite, gli esami, gli strazi cui Sofia è sottoposta mentre, giorno dopo giorno, peggiora. La sedia vuota nello studio di architettura è sempre li che aspetta papà Guido, ma lui è altrove: nuovi dottori, nuovi ospedali e un estenuante peregrinare di città in città. Alla fine la diagnosi arriva, ma è di quelle che nessun padre vorrebbe mai sentirsi: Sofia è affetta da una malattia ad esito infausto, la
Leucodistrofia Metacromatica. Una
malattia genetica rara e neuro degenerativa, di quelle per cui al momento, se non diagnosticata alla nascita, non esiste cura al mondo.
La malattia
A questo punto ci sono tante cose da fare, una più dolorosa dell’altra. E Guido le fa tutte, con la forza di un leone e il dolore di un cuore in pezzi: lasciare insieme alla moglie la piccola casa in centro per una più adatta alle cure di Sofia. Lasciare il lavoro, lasciare i parenti, lasciare Firenze. Continuando a sfogliare l’album dei ricordi, arriviamo a quel giorno d’inverno e di pioggia di
fine 2017, che bagnava il cimitero monumentale delle Porte Sante, sul colle di San Miniato. È in questo luogo santo, destinato da secoli ad accogliere le spoglie dei Grandi della città, quelli che Firenze non vuole dimenticare, che da quel giorno riposa Sofia, viva per sempre nel cuore dei fiorentini. È a quel punto che papà Guido raccoglie l’eredità del suo angelo, per portare Luce dove invece aveva incontrato solo buio e solitudine. Attraverso
Voa Voa! Amici di Sofia aps, un’associazione nata nel 2013 quando sua figlia era ancora in vita, che accoglie bambini gravissimi, per trasformare la loro fragilità in forza. Forza nel vedere la vita dove tutti gli altri vedono morte, nell’accendere la speranza dove regna lo scoramento. È per compiere questa missione che Guido ha trovato la forza di sopravvivere al suo dolore.
Voa Voa
'Voa Voa! Amici di Sofia' su Facebook
Voa Voa rappresenta un grande e bellissimo inizio. È una casa dalla porta sempre aperta, tutti i giorni dell’anno, grazie alla quale i malati rari e le loro famiglie non sono più soli né invisibili. È la voce per chi non ce l’ha; è sostegno alla ricerca per malattie orfane di cure. È una strada lunga da tracciare e spianare, per rendere più facile il cammino di chi viene dopo e non ce la farebbe a percorrerla da solo. In questa associazione, di cui è presidente, Guido non ha mai smesso di lavorare per il bene dei
#RariNonInvisibili, che sono
oltre 2 milioni in Italia e 1 su 5 è un bambino. Lui che da un momento all’altro ha dovuto rinunciare a costruire case nello studio di architettura, per iniziare a costruire, mattone su mattone, qualcosa che va oltre il perimetro esatto dei muri: un piccolo mondo nuovo, di speranza e di solidarietà.
La storia di Guido, un papà e il suo angelo
Guido, qual è il momento più difficile per una famiglia con un bimbo affetto da una patologia rara?
L’architetto Guido De Barros, padre di Sofia e presidente della Onlus ’Voa Voa!’
“Dipende dalla gravità della patologia, poiché rarità non sempre è sinonimo di gravità. Quando si ha a che fare con una diagnosi di patologia
life limiting, talmente rara che persino i medici ne sanno poco o nulla, che soprattutto non dispone di una terapia né farmacologica né genica e che, addirittura, si preannuncia ad esito infausto, credo che il momento più difficile per una famiglia sia proprio quello della diagnosi. Ti trovi schierato davanti un plotone di medici che appena conosci, che magari hai visto al volo un paio di volte nel corso di un ricovero diagnostico. Prendono la mira e sparano su tuo figlio una diagnosi di malattia terminale (nel nostro caso neuro degenerativa). Allora è esattamente come ricevere una fucilata nel petto, senza neanche la possibilità di chiudere gli occhi e farla finita tu per primo, perché la verità è che quella fucilata non arresterà realmente il tuo cuore: non morirai, non fisicamente almeno, ma dentro sarà come se lo fossi. Il cuore palpita, i pensieri si annebbiano, poi si perdono e non ritroveranno più il normale stato di lucidità. La diagnosi è una prima morte, non del figlio (che magari è tanto piccolo da non capire, come nel caso di Sofia), ma dei genitori. Quel 26 luglio 2011 i medici hanno ucciso me e mia moglie una prima volta, ancor prima che diversi anni più tardi la malattia uccidesse realmente nostra figlia. I giorni a seguire sono surreali, convulsi, indescrivibili. L’incredulità, il rifiuto, in fine la disperazione e, dopo troppe lacrime e pugni nel muro, la rassegnazione, o accettazione che dir si voglia. Tornare a casa dopo avere ricevuto la sentenza 'Tua figlia è condannata' e ritrovartela davanti che ti accoglie con un magnifico, struggente sorriso. Avere la morte nel cuore, il panico nel cervello e sentire però di dover ricambiare quel sorriso. Non solo sul momento ma per tutti i giorni, i mesi o gli anni che la malattia ti concederà insieme a lei, prima di portartela via per sempre. La diagnosi è la prima sentenza di condanna, dopo di che la famiglia entra nel braccio della morte. E presto ci si accorge che ad ammalarsi non è stato il figlio e basta, ma tutti quanti”.
Cosa pensava in quei giorni in cui la vita le veniva stravolta? E cosa le manca della sua professione mai più recuperata? “Sentivo l’ansia indescrivibile di sapere che ogni secondo sprecato a cercare cure farmacologiche o geniche inesistenti rappresentava un secondo in meno di salute per mia figlia; sentivo la frustrazione violenta del non poterla in alcun modo aiutare a liberarsi di un mostro che la stava divorando da dentro, un mostro fatto delle sue stesse cellule che, difettose, la stavano intossicando; e in un angolo più remoto del mio cuore sentivo anche il rimorso, crudele e profondo, per tutte quelle volte in cui, ignaro, avevo dato per scontata la mia vita. Sul momento non ho pensato che la mia professione avrebbe potuto mancarmi. L’ho abbandonata come si abbandona una zavorra che t’impedisce di correre più velocemente possibile. Pensavo solo che dovevo stare con mia figlia Sofia, senza sprecare neanche un attimo. Più tardi, parlo di diversi anni, avrei sentito nostalgia di qualcosa che forse potrei ricondurre alla mia professione mancata, ma non esattamente. Mi manca l’idea concreta e serena di un progetto di vita pieno di fiducia verso l’avvenire e senza l’ipotesi assassina di un crudele sgambetto. Quegli sgambetti che, invece, il destino aveva disseminato lungo il percorso di vita della mia famiglia”.
Cosa si è portato via per sempre di lei la malattia di Sofia, e cosa invece ha rappresentato un valore aggiunto?
L’architetto Guido De Barros, padre di Sofia e presidente della Onlus ’Voa Voa!’
“Si è portata via per sempre la spensieratezza, la spinta alla vita che, quando funziona, ha una forza trascinante. La motivazione, la fiducia a occhi chiusi verso l’avvenire, l’ambizione alla felicità. Queste sono cose che la diagnosi di quella malattia e, negli anni a seguire, l’evoluzione e l’aggravarsi della condizione di Sofia, si sono portate via per sempre. A volte io e mia moglie abbiamo paura, ci svegliamo la mattina con una paura dentro che ci accompagna per tutta la giornata. E neanche sappiamo spiegare “paura di cosa”...è paura e basta, come quando hai guardato dove non dovevi guardare e hai visto l’inferno. Dopo rimani come accecato e non riesci a vedere mai più con la stessa chiarezza di prima. Il valore aggiunto, se così si può dire, che mi hanno dato gli anni da
caregiver a fianco di Sofia, è stata la presa di coscienza della mia piccolezza, della finitezza di questo uomo impotente che non aveva strumenti per difendere sua figlia dalla malattia e dal dolore, che con tutte le sue spalle larghe non ha potuto fare niente per impedire che lo Tsunami abbattesse le sue forze devastanti sulla sua famiglia. E proprio da questa nuova consapevolezza delle mie possibilità (o impossibilità), è nato un desiderio forte e deciso di dare vita a qualcosa di utile che potesse aiutare anche solo in minima parte genitori che stanno vivendo la medesima condizione di frustrazione e solitudine:
Voa Voa! Amici di Sofia aps. E anche qualcosa che potesse impedire il ripetersi di questa storia abominevole di dolore infinito, attraverso la diagnosi precoce della patologia che significa Salvezza, una salvezza cui mia figlia non ha avuto diritto. Da questo secondo proposito è nata la campagna Gocce di Speranza, per il finanziamento del primo progetto pilota al mondo di screening neonatale della
Leucodistrofia Metacromatica”.
Dove trova la forza per sostenere il peso della responsabilità del guidare una Onlus come Voa Voa!, a stretto contatto con bambini malati rari come è stata Sofia? “Non la trovo. Ogni giorno il senso di impotenza è di inadeguatezza di fronte ai bisogni (ma dovrei dire emergenze) che attanagliano le famiglie con malati rari in condizioni gravissime mi spezza le gambe. Combatto per tenermi in piedi, mi dico che fare il massimo, anche se alla fine dovesse rivelarsi una goccia nell’oceano, è comunque meglio che non fare niente. Perché lasciare le cose come stanno significa non portare rispetto alla memoria di Sofia e di malati che hanno perso la loro battaglia contro la malattia. E significa non portare rispetto verso coloro che ancora, giorno dopo giorno, combattono per restare vivi. In ultimo, lasciarsi schiacciare dalla paura di non poter in alcun modo migliorare situazioni che, in molti casi, sono disperate, significa abbandonare le persone che se ne prendono cura ad una vita fatta solo di isolamento, dolore, frustrazione, buio. Invece grazie a Sofia e alle famiglie di
Voa Voa ho capito che insieme possiamo farci coraggio, ritrovare un poco di luce e aggrapparci ad una speranza”.
E qual è la difficoltà più grande contro cui si scontra quotidianamente? “Riuscire a mantenere la mente lucida, distaccata (passatemi il termine), dalla sofferenza delle persone con cui entro a contatto quotidianamente, evitando per quanto possibile di lasciarmi trascinare dall’empatia e dalle emozioni, che sono tutte quante condivise perché anche io le ho vissute quando ero
caregiver (familiare assistente,
ndr) di Sofia. Solo così però posso pensare a possibilità sostenibili, aiuti concreti per quanto piccoli, che possano lenire alcune situazioni. Ma non è facile e non sempre ci riesco...a volte la voce di una mamma che si strozza o quella di un babbo che rompe in lacrime perché ha appena ricevuto una diagnosi, mi fa sprofondare nei ricordi, vividi e atroci, che sono ancora tutti lì dentro di me”.
L’architetto Guido De Barros, padre di Sofia e presidente della Onlus ’Voa Voa!’
La missione di Voa Voa! è già tutto in questo nome, pronunciato da Sofia per dire ‘Vola Vola’: un invito a volare oltre la gabbia prigioniera di una malattia rara. Cosa desiderano le famiglie di cui vi occupate? Di quali aiuti, fisici e morali, hanno bisogno: e come riuscite, concretamente, ad aiutarle a liberarsi dalla ‘gabbia’ di indifferenza e solitudine in cui si trovano? “Le nostre famiglie speciali sono tutte afflitte da diagnosi gravissime sui propri figli, altamente invalidanti e multi sistemiche. Non è possibile scappare dalla gabbia in cui la patologia imprigiona tanto i figli malati quanto i genitori che se ne prendono cura. Ma si può tentare di rendere quella gabbia terribile più sopportabile e vivibile. L’unico desiderio che hanno le famiglie speciali di Voa Voa è quello di migliorare il più possibile la qualità della vita dei loro figli. Non solo attraverso le medicine, che spesso sono appena palliative, ma anche attraverso tutta una rete assistenziale (per la maggior parte privata e pagata di tasca propria), che comprende logopedisti, fisioterapisti, massaggiatori, nutrizionisti ecc. Insomma, tutto quanto è possibile per contrastare le sofferenze della patologia e le conseguenze della malattia. Attraverso un progetto che si chiama “Voa Voa da te”, la nostra associazione cerca di dare loro una mano concreta, rimborsando ogni anno almeno una parte delle gravose spese sostenute. Le famiglie iscritte provengono da tutta Italia, ve ne sono della provincia di Asti così come della provincia di Catania. A seconda della regione di appartenenza, ognuna ha bisogno di forme di assistenza diverse, riconducibili alle lacune assistenziali da parte del territorio. Dunque lasciamo che siano le famiglie ad indicarci i propri bisogni. Previa documentazione fiscale, possiamo rimborsare spese sostenute per l’acquisto di integratori o preparazioni galeniche, presidi ortopedici, visite specialistiche, prelievi a domicilio, fisioterapia ecc... Mi ha chiesto anche in che modo cerchiamo di aiutarle a liberarsi dalla gabbia di indifferenza e solitudine in cui si trovano. Ebbene, cerchiamo di farlo continuamente, attraverso una serie di iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni che non pretendono di tradursi nel mero
fundraising, ma che ambiscono prima di tutto a far emergere dal buio la condizione di isolamento e di abbandono di famiglie così profondamente, drammaticamente rinchiuse tra le mura di una casa e di un grande dolore. Penso ai numerosi banchini che organizziamo nel corso dell’anno (fino a che la pandemia lo ha consentito) e alla grande opera di sensibilizzazione “Un muro per Sofia”, il grande murale di cinque metri per cinque che abbiamo realizzato in diverse città della Toscana e in più quartieri di Firenze”.
Sfogliando l’album dei ricordi, sono tante le espressioni di vicinanza, che in questi anni vi è stata calorosamente dimostrata, tanto dalla gente comune quanto dalle personalità del mondo dello spettacolo e dello sport, che hanno sposato la vostra causa. Ci racconta e ricorda i momenti di solidarietà e vicinanza che più l’hanno colpita?
Filippo Neviani, in arte Nek, con Guido De Barros
“Ci sono stati molti bei momenti. Penso alle magliette
Voa Voa! indossate da attrici e cantanti, ai murales in onore di Sofia -come dicevo prima-, da noi realizzati con l’appoggio e il patrocinio dei Comuni e dei Quartieri di varie parti della Toscana, agli striscioni carichi di affetto della Curva Fiesole, ai concerti di Nek che di
Voa Voa! è socio fondatore e testimonial. Ma c’è stata anche, purtroppo, molta strumentalizzazione, soprattutto nei primi tempi, quando le Iene avevano catapultato la mia famiglia alla ribalta mediatica e tutti sembravano volersi improvvisamente prendere cura di Sofia e dei bambini come lei. Invece poi, nella maggior parte dei casi, si sono rivelate bolle di sapone”.
La speranza si fa concreta nel momento in cui queste patologie rare trovano una diagnosi precoce, una cura e possibilmente dei farmaci. Quali sono i progetti che Voa Voa! sta portando avanti in tal senso per sostenere la ricerca? “La missione della Onlus è triplice: assistere le famiglie con bambini malati, sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sul tema delle malattie rare pediatriche, e finanziare progetti di ricerca, con particolare attenzione alla diagnosi precoce. Proprio a quest’ultimo ambito di intervento è dedicato un grande progetto di raccolta fondi iniziato nel 2018, ad un anno dalla scomparsa di Sofia, che si chiama “Gocce di speranza”. Nello specifico Voa Voa si propone di finanziare il primo progetto pilota in Italia di screening neonatale della
Leucodistrofia Metacromatica (MLD), ossia la patologia che ha ucciso mia figlia. In verità, il nostro impegno in tal senso è iniziato nel 2015, quando Sofia era ancora in vita, con il finanziamento al Laboratorio di Diagnosi precoce del Meyer della ricerca del test necessario per
screenizzare la MLD alla nascita di un bambino, attraverso una singola goccia di sangue prelevata dal tallone. Dopo un anno i ricercatori del laboratorio diretto dal professor Giancarlo La Marca sono riusciti ad identificare un test affidabile, rapido ed economico. Dopo di che l’Ospedale si è messo in attesa che il progetto pilota si aggiudicasse i finanziamenti necessari per partire, attraverso appositi bandi ministeriali (cosa che purtroppo non è mai avvenuta). Intanto i diversi bambini in Toscana affetti da MLD hanno sviluppato la malattia e a causa dell’assenza di una diagnosi precoce, sono ora condannati a morte senza possibilità di cura. Dovete sapere infatti che, se diagnosticata prima della comparsa dei sintomi -ossia prima dell’anno di vita- la MLD è perfettamente curabile, attraverso la terapia genica messa a punto dal San Raffaele di Milano. Alla comparsa di un solo sintomo però, l’arruolamento alla terapia genica diventa impossibile, perché la malattia ormai esplosa galoppa troppo più velocemente rispetto agli effetti della cura. Ecco perché è necessario
screenizzare i neonati entro i primi giorni di vita. Ecco perché a mia figlia Sofia, che al momento della diagnosi zoppicava e presentava alcuni disturbi del linguaggio, la terapia del San Raffaele è stata negata. E come a lei anche a tutti gli altri bimbi oggi malati di MLD. Non sto a descrivere il dolore assoluto che investe un padre e una madre nel momento in cui ti dicono che l’unica terapia esistente al mondo per guarire tua figlia malata, le è preclusa. Di qui la volontà di finanziare in toto il progetto pilota, noi piccola Onlus, 450.000 euro per tre anni di sperimentazione sui 75.000 neonati della Toscana. Dopo di che la Regione avrà dati sufficienti per inserire nel pannello degli screening obbligatori alla nascita anche la MLD. Lo scorso 21 maggio abbiamo consegnato i primi 150.000 euro al laboratorio del Professor La Marca, che consentiranno l’avvio del progetto entro il 2022. A ottobre scorso altri 50.000 euro sono stati invece devoluti all’acquisto di macchinari e materiale laboratoriale necessario all’esecuzione degli screening. Ma la raccolta fondi continua (info:
goccedisperanza.it)”.
Filippo Neviani, in arte Nek,, è socio fondatore di ' Voa Voa! Amici di Sofia aps'
Un argomento tanto drammatico quanto reale, riguarda il ‘dopo di loro’. Quando i bambini vengono a mancare, i genitori, che dedicandosi alla loro più totale assistenza rinunciano per anni a ogni tipo di vita sociale si ritrovano senza nessuna assistenza, né di tipo psicologico né reintegrativo nel mondo del lavoro. Cosa si potrebbe fare in questi casi? “La questione del “dopo di loro” è tanto seria quanto quella del “dopo di noi”. Alcune patologie sono fortemente invalidanti, ma non hanno esito infausto nel giro di pochi anni. Questo preoccupa seriamente i genitori per le sorti del figlio che, invalido, rimarrà privo di assistenza quando il padre e la madre verranno a mancare. In questo caso parliamo del “dopo di noi”, un problema annoso e assai discusso. Ma esiste anche la situazione contraria, ossia quando il figlio malato muore, dopo diversi anni di gravissima malattia - nel caso della mia famiglia Sofia è morta dopo 7 anni e mezzo dal giorno della diagnosi. In questi casi sono i genitori a rimanere soli, e nella Onlus purtroppo abbiamo già avuto sette casi dal 2013 ad oggi. E quando dico soli non esagero. Una patologia multi sistemica completamente invalidante, come lo sono quelle che affliggono i bambini iscritti a Voa Voa!, stravolge completamente l’equilibrio di una famiglia. Le notti in bianco in preda ai pianti inconsolabili, le crisi convulsive ed epilettiche, la difficoltà nel nutrire e nell’idratare un bambino che nel giro di pochi mesi perde la capacità di ingoiare, le fughe in ospedale od ogni ora del giorno e della notte, il terrore di contrarre anche un banale raffreddore, che per i nostri figli potrebbe significare un ricovero in terapia intensiva. L’assistenza al piccolo diventa una priorità assoluta a non delegabile. Nel mio caso ho dovuto lasciare il lavoro per poter aiutare mia moglie ad assistere Sofia nei primi due anni di malattia, perché la piccola non dormiva e non trovava pace e facevamo i turni per calmarla e coccolarla, riposando appena un paio di ore a testa nell’arco di una giornata".
Per anni Sofia è stata il vostro tutto. "Sì, comprese le lotte per migliorare la qualità della sua vita, perché non le mancasse l’assistenza sanitaria di cui aveva bisogno e che, invece, spesso non ha ricevuto. Il territorio non è preparato a gestire un paziente pediatrico con patologie degenerative multi sistemiche. Le battaglie perché avesse diritto a terapie palliative e compassionevoli, laddove la medicina della guarigione aveva gettato la spugna. Sofia non digeriva nulla, men che mai il latte artificiale proposto a più riprese dall’ospedale. Non faceva che vomitare e disidratarsi. Giorno e notte, vivevamo nell’incubo e nella disperazione, una volta siamo finiti in ospedale per attaccarla alla flebo dell’idratazione e della nutrizione parenterale. Ma poi mia moglie si è tirata su le maniche, ha detto “se non riesce più a masticare né ingoiare, e se non tollera neanche il latte artificiale ospedaliero attraverso il sondino naso gastrico, allora studierò una dieta che le sia congeniale”. E per anni si è impegnata in questo, a studiare cibi e combinazioni che potessero nutrire nostra figlia senza irritarle lo stomaco o provocarle rigetto. E ci è riuscita. Fino all’ultimo Sofia ha avuto esami ematici impeccabili. Era piccolina, cresceva poco e la massa grassa era scarsa, ma dal punto di vista nutrizionale non le mancava nulla, né ferro né minerali né vitamine. A mia moglie bastava guardarla in faccia per capire se i nutrienti erano corretti o se avesse piuttosto bisogno di più fibre, più proteine ecc. Un’alimentazione completamente naturale che non le ha mai più provocato alcuna forma di rigetto, ma che costava a mia moglie un’incredibile dedizione. Quando i nostri bambini speciali muoiono, è come perdere l’unica ragione di vita, dopo tanto impegno e tanto amore. Negli anni di
caregiving non c’è stato tempo per occuparsi del lavoro, per coltivare le amicizie ecc. Dopo ci si ritrova completamente soli, senza scopo, senza professione e, soprattutto, solitamente ad un’età che difficilmente consente di reinserirsi nel mondo del lavoro. A tutti gli effetti, non esistono reti sul territorio appositamente pensate per motivare e reintegrare nella società individui che ormai possono considerarsi alieni. Io e mia moglie, a tre anni dalla scomparsa di Sofia, stentiamo ancora a sentirci 'normali', e non c’è giorno che non avvertiamo la distanza dal resto del mondo”.
L’architetto Guido De Barros, padre di Sofia e presidente della Onlus ’Voa Voa!’
Nel corso della malattia, nel momento della diagnosi come nella vita di tutti i giorni, capita di sentire pronunciare parole che provocano solo dispiacere. Quali di queste parole vorrebbe veder cancellate per sempre dal vocabolario? E quali altre scolpite invece a caratteri giganteschi nella pietra? “Ho sentito parole come 'Se fosse capitato a mio figlio lo avrei soffocato subito con un cuscino, perché non ce l’avrei fatta a vederlo soffrire così' o 'Io non so dove troviate la forza per resistere a fianco di un malato così grave', oppure ancora 'Speriamo che presto finiscano le sue sofferenze così voi genitori potrete tornare alla vita normale'. Queste non solo sono frasi che non vorrei sentire, ma sono concetti in sé per sé profondamente offensivi, che evidentemente possono essere pronunciati solo ed esclusivamente da chi una situazione del genere, grazie a Dio, non l’ha provata. Invece, le frasi che mi hanno scaldato il cuore nel corso degli anni di malattia di Sofia sono state 'Quando la guardo non vedo una persona malata, ma solo una bellissima bambina' o 'Sofia mi fa essere allegra' (detto da una bimba di quattro anni che la veniva a trovare), oppure i tantissimi, indimenticabili, 'Ciao amore mio' che mia suocera Vienda rivolgeva a Sofia ogni giorno, quando nel pomeriggio la veniva a trovare e spesso aggiungeva 'Dov’è il mio tesoro, là sarà sempre il mio cuore'”.
Si dice che quando si paga il prezzo dell’Apocalisse, Dio mandi un angelo: e infatti lei è oggi papà di una splendida bambina di nome Gloria. Come le racconterà un giorno tutto questo, di Sofia e di Voa Voa? “Io e mia moglie abbiamo già iniziato a farlo, praticamente da quando è nata. Gloria sa che ha una sorella in Cielo, che babbo e mamma parlano spesso con altri genitori che hanno bambini malati, che tutti nel mondo hanno bisogno di una carezza. Perché le carezze fanno guarire da tante malattie, non tutte purtroppo questo è vero, ma da quelle che rabbuiano il cuore sì. Allora lei guarda una foto di Sofia e dice 'Sofia ha la bua', poi la prende tra le mani e l’accarezza 'faccio caro caro, Babbo, così Sofia sta bene' oppure 'Chissà se un giorno Sofia verrà a trovarmi dal cielo, come una farfallina'. La cosa che spero di insegnarle nel tempo, che spero
Voa Voa! sarà capace di insegnarle, è ad abbattere le barriere dell’indifferenza e delle diversità, per scoprire soltanto la forza strabordante dell’amore”.
Prima di addormentarsi, la sera, a chi rivolge il suo ultimo pensiero del giorno?
Il logo 'Voa Voa !'
“Vado sempre a letto per ultimo. Dopo aver accarezzato mia moglie e mia figlia rivolgo lo sguardo al Cielo, auguro a Sofia una luce eterna e penso che io non dovrò mai dimenticare il modo in cui lei è stata capace di arricchire la mia vita. Penso che questo dono che ho ricevuto, averla potuta conoscere e accudire come padre, debba trasformarsi in qualcosa di buono e che dovrò avere la forza e il coraggio necessari”.
Se dovesse fare una dedica di questo album dei ricordi che abbiamo appena sfogliato, cosa scriverebbe? “Scriverei : alle risate della famiglia che siamo stati. All’abbraccio stretto di quella che siamo ora. E soprattutto, al sorriso stentato ma deciso di tutti i malati rari che ogni giorno ci provano, comunque e nonostante tutto, a cercare la loro felicità”.