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Home » Attualità » India, la tragedia delle donne lavoratrici: senza utero per produrre più zucchero

India, la tragedia delle donne lavoratrici: senza utero per produrre più zucchero

Il calvario delle indiane tra isterectomia forzata e soprusi nei campi: "Rese sterili per sbarcare il lunario senza interferenze"

Ilaria Vallerini
21 Maggio 2022
Il 'sacrificio dello zucchero', lavoratrici indiane senza utero

Il 'sacrificio dello zucchero', lavoratrici indiane senza utero

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Una tela bianca punteggiata di schegge colorate. È questa la fotografia dall’alto dei campi del distretto indiano di Beed. Qui donne coraggiose in sari, abito tradizionale indiano, lavorano instancabilmente nelle piantagioni di canna da zucchero durate il periodo del raccolto (sei mesi all’anno). Il loro calvario però ha anche un altro nome: isterectomia. Il 36% delle lavoratrici, infatti, ha subito un intervento di ablazione dell’utero. Ciò le facilita nella ricerca del lavoro perché le rende più produttive. Un presupposto fondamentale per l’India, il principale Paese produttore ed esportatore di zucchero nel mondo. A mettere in luce questo terribile destino è il reportage “Le sacrificate dello zucchero” trasmesso dall’emittente France Television e andato in onda a ‘Envoyé Spécial‘.

Lavoratrici indiane nelle piantagioni di canna da zucchero

Un calvario chiamato isterectomia 

Oltre un milione di lavoratori, di cui la metà sono donne, ad inizio ottobre viaggiano verso la città Beed per trovare impiego nelle coltivazioni di canna da zucchero. Generalmente le donne vengono reclutate dai ‘mukadam’, ovvero agenti pagati dai proprietari delle piantagioni per far arrivare in loco intere famiglie da impiegare nei campi, già dall’età di dieci anni. Le condizioni di lavoro sono estremamente dure: sveglia alle 3 di notte, oltre 10 ore nei campi piegati sotto il sole e un solo giorno di riposo al mese. Durante i sei mesi del raccolto vivono in tende istallate dai titolari delle fabbriche di zucchero, senza acqua corrente né luce. Nei campi sono sempre i famigerati ‘mukadam’ a controllare i lavoratori agricoli e la loro produttività. Sono sempre loro a suggerire alle ragazze e alle donne di procedere a un’isterectomia totale, con ablazione delle ovaie, per eliminare dolori mestruali, problemi legati al parto, presentando l’intervento come banale. I medici della regione che eseguono l’operazione invasiva argomentano che così facendo evitano di sviluppare un tumore, in realtà un rischio di gran lunga inferiore per la salute della donna rispetto alle conseguenze di un’isterectomia, specie se praticata in giovane età. “Se non tolgono l’utero, è un problema per noi, sono meno produttive. E se hanno un cancro, non servono più a nulla”, riferisce a ‘Envoyé Spécial’ il reclutatore Jyotiram Andhale precisando che il costo dell’intervento è a loro carico e che durante il ricovero e la convalescenza non vengono pagate.

Donne indiane nelle capanne delle piantagioni di canna da zucchero

Utero rimosso anche alle ragazze di 20 anni

C’è chi ha subito la rimozione dell’utero a soli 20 anni. Un massacro, che rende il corpo femminile un guscio vuoto. Togliere ciò che rende donne è il più ignobile dei gesti. L’isterectomia provoca una menopausa molto precoce in quanto blocca la produzione di ormoni e rende le donne sterili. Così a 30 anni ne dimostrano 50, perché il corpo tende ad appassire prematuramente. In compenso niente più dolori mestruali, né  figli, e soprattutto maggiore produttività (che fa solo il bene dei proprietari terrieri) e posto di lavoro assicurato. Spesso non hanno altra scelta se non quella di cedere alle pressioni dei ‘mukadam’ per lavorare e riuscire a sbarcare il lunario con la famiglia, pagando il prezzo più alto proprio sulla propria pelle. Un lungo calvario, quindi, che inizia proprio dall’operazione e si dipana nei più svariati soprusi quotidiani. “Il mukadam ci urla addosso se non lavoriamo abbastanza. Ci picchia molto forte, anche quando stiamo male. Grida ai nostri mariti che non lavoriamo sodo e che tocca rimborsare lo stipendio”, racconta una donna ai giornalisti di France Television, mentre il marito è impegnato a consegnare in fabbrica le canne appena tagliate che poi verranno lavorate, pronte poi all’esportazione in tutto il mondo. Il sacrificio delle donne racchiuso in una bustina di zucchero.

Il duro sacrificio delle lavoratrici indiane

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Instagram

  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

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  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Una tela bianca punteggiata di schegge colorate. È questa la fotografia dall'alto dei campi del distretto indiano di Beed. Qui donne coraggiose in sari, abito tradizionale indiano, lavorano instancabilmente nelle piantagioni di canna da zucchero durate il periodo del raccolto (sei mesi all'anno). Il loro calvario però ha anche un altro nome: isterectomia. Il 36% delle lavoratrici, infatti, ha subito un intervento di ablazione dell'utero. Ciò le facilita nella ricerca del lavoro perché le rende più produttive. Un presupposto fondamentale per l'India, il principale Paese produttore ed esportatore di zucchero nel mondo. A mettere in luce questo terribile destino è il reportage "Le sacrificate dello zucchero" trasmesso dall'emittente France Television e andato in onda a 'Envoyé Spécial'.
Lavoratrici indiane nelle piantagioni di canna da zucchero

Un calvario chiamato isterectomia 

Oltre un milione di lavoratori, di cui la metà sono donne, ad inizio ottobre viaggiano verso la città Beed per trovare impiego nelle coltivazioni di canna da zucchero. Generalmente le donne vengono reclutate dai 'mukadam', ovvero agenti pagati dai proprietari delle piantagioni per far arrivare in loco intere famiglie da impiegare nei campi, già dall'età di dieci anni. Le condizioni di lavoro sono estremamente dure: sveglia alle 3 di notte, oltre 10 ore nei campi piegati sotto il sole e un solo giorno di riposo al mese. Durante i sei mesi del raccolto vivono in tende istallate dai titolari delle fabbriche di zucchero, senza acqua corrente né luce. Nei campi sono sempre i famigerati 'mukadam' a controllare i lavoratori agricoli e la loro produttività. Sono sempre loro a suggerire alle ragazze e alle donne di procedere a un'isterectomia totale, con ablazione delle ovaie, per eliminare dolori mestruali, problemi legati al parto, presentando l'intervento come banale. I medici della regione che eseguono l'operazione invasiva argomentano che così facendo evitano di sviluppare un tumore, in realtà un rischio di gran lunga inferiore per la salute della donna rispetto alle conseguenze di un'isterectomia, specie se praticata in giovane età. "Se non tolgono l'utero, è un problema per noi, sono meno produttive. E se hanno un cancro, non servono più a nulla", riferisce a 'Envoyé Spécial' il reclutatore Jyotiram Andhale precisando che il costo dell'intervento è a loro carico e che durante il ricovero e la convalescenza non vengono pagate.
Donne indiane nelle capanne delle piantagioni di canna da zucchero

Utero rimosso anche alle ragazze di 20 anni

C'è chi ha subito la rimozione dell'utero a soli 20 anni. Un massacro, che rende il corpo femminile un guscio vuoto. Togliere ciò che rende donne è il più ignobile dei gesti. L'isterectomia provoca una menopausa molto precoce in quanto blocca la produzione di ormoni e rende le donne sterili. Così a 30 anni ne dimostrano 50, perché il corpo tende ad appassire prematuramente. In compenso niente più dolori mestruali, né  figli, e soprattutto maggiore produttività (che fa solo il bene dei proprietari terrieri) e posto di lavoro assicurato. Spesso non hanno altra scelta se non quella di cedere alle pressioni dei 'mukadam' per lavorare e riuscire a sbarcare il lunario con la famiglia, pagando il prezzo più alto proprio sulla propria pelle. Un lungo calvario, quindi, che inizia proprio dall'operazione e si dipana nei più svariati soprusi quotidiani. "Il mukadam ci urla addosso se non lavoriamo abbastanza. Ci picchia molto forte, anche quando stiamo male. Grida ai nostri mariti che non lavoriamo sodo e che tocca rimborsare lo stipendio", racconta una donna ai giornalisti di France Television, mentre il marito è impegnato a consegnare in fabbrica le canne appena tagliate che poi verranno lavorate, pronte poi all'esportazione in tutto il mondo. Il sacrificio delle donne racchiuso in una bustina di zucchero.
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