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Home » Attualità » Istat, l’Italia non è un Paese per Lgbt+. Una persona su cinque ha subito aggressioni a lavoro

Istat, l’Italia non è un Paese per Lgbt+. Una persona su cinque ha subito aggressioni a lavoro

L'agghiacciante rapporto Istat-Unar 2020-2021: una persona su tre, tra omosessuali e bisessuali, è stata discriminata sul posto di lavoro. Il 70% evita di tenersi per mano in pubblico

Remy Morandi
24 Marzo 2022
L'Italia non è un Paese per la comunità Lgbt+

L'Italia non è un Paese per la comunità Lgbt+

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L’Italia non è un Paese per la comunità Lgbt+. Una persona su tre, tra omosessuali e bisessuali, è stata discriminata sul lavoro. E ancora peggio, forse, il fatto che una persona su cinque abbia subito un’aggressione o abbia vissuto un clima ostile sul luogo di lavoro. A certificarlo è la nuova indagine Istat-Unar sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone Lgbt+, anno 2020-2021.

In Italia una persona Lgbt+ su cinque ha subito un’aggressione sul luogo di lavoro (Fonte indagine Istat-Unar, 2020-2021)

L’indagine Istat-Unar è scioccante. Una persona su cinque ritiene che il proprio orientamento sessuale sia stata la causa di svantaggi lavorativi, sia in termini di avanzamenti di carriera, sia in termini di crescita professionale. Nel complesso – l’indagine è stata condotta su oltre 20mila persone residenti in Italia che al primo gennaio 2020 risultavano in unione civile o già unite civilmente (per sciogliemento dell’unione civile o per decesso del partner) – il 26% delle persone occupate o ex occupate, ovvero più di una persona su quattro, pensa che essere omosessuale o bisessuale abbia rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa. Nel rapporto è emerso poi che oltre il 20% degli intervistati, una persona su cinque, ha avuto difficoltà in famiglia dopo aver fatto coming out.

Una persona su cinque ha subito aggressioni a lavoro

Forse è il dato più grave. Una persona Lgbt+ su cinque dichiara di aver subito un’aggressione o di aver vissuto un clima ostile sul posto di lavoro. E le più penalizzate chi sono? Le donne. L’incidenza di questi casi infatti è più elevata per le donne (21,5%), sia lesbiche che bisessuali, rispetto agli uomini (20,4%), gay o bisessuali. La percentuale di questa incidenza cresce tra i giovani (26,7%), gli stranieri o apolidi (24,7%) e le persone che vivono nel Sud Italia (22,6%). Tra chi, poi, ha deciso di celebrare un’unione civile con il proprio partner, è il 38,2% a lamentare di aver subito, per motivi legati al proprio orientamento sessuale, almeno un episodio di discriminazione in altri contesti di vita, come ad esempio la ricerca della casa, i rapporti col vicinato, la fruizione dei servizi socio-sanitari, degli uffici pubblici, dei mezzi di trasporto, negozi, o altri locali ancora.

Circa una donna Lgbt+ su due ha subito offese di tipo sessuale (Fonte indagine Istat-Unar, anno 2020-2021)

Una persona su quattro ha subito minacce

Il fenomeno più diffuso tra dipendenti o ex-dipendenti che hanno vissuto un clima ostile a lavoro riguarda più spesso l’essere stati calunniati, derisi o aver subito scherzi pesanti (46,5%), l’essere stati umiliati o presi a parolacce (43,9%). L’episodio maggiormente segnalato dagli indipendenti è invece l’aver ricevuto offese, incluse quelle di tipo sessuale (45,6%). Anche in questi casi sono le donne a subire tali offese più di frequente (43,8% contro il 30,3% degli uomini). Inoltre il 23,1% delle persone omosessuali o bisessuali, circa una persona su quattro, dichiara di essere stato minacciato in forma verbale o scritta, e il 5,3% di aver subito un’aggressione fisica, con incidenze più alte tra gli uomini.

Il 70% delle persone evita di tenersi per mano in pubblico

Le persone Lgbt+ hanno comunicato di aver dovuto cambiare vita o stile di vita per evitare discriminazioni. Il 16,8% degli intervistati, circa una persona su sei, si è trasferito in un altro quartiere, altro Comune, o all’estero per vivere più tranquillamente la propria omosessualità o bisessualità. Un altro dato agghiacciante è che oltre il 68,2% degli intervistati ha evitato di tenersi per mano in pubblico con un partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato; un comportamento più comune tra gli uomini (69,7%), sebbene anche per le donne la percentuale sia molto elevata (65%). Il 52,7%, più di una persona su due, ha evitato di esprimere il proprio orientamento sessuale per paura di essere aggrediti, minacciati o molestati.

Il 70% delle persone evita di tenersi per mano in pubblico (Fonte indagine Istat-Unar, anno 2020-2021)

Una persona su cinque ha avuto difficoltà in famiglia dopo il coming out

Nella quasi totalità dei casi la famiglia di origine e gli amici delle persone in unione civile o già in unione è a conoscenza dell’attuale orientamento sessuale, ma per alcuni degli intervistati la decisione di renderlo noto (coming out) ha generato una reazione negativa da parte dei genitori. La madre ha mostrato ostilità o rifiuto in più di un quinto dei casi (21,8%), in misura maggiore per le donne (28,8% a fronte del 18,1% degli uomini). Una quota poco meno elevata riguarda la reazione negativa dei padri (19,8%), con un’incidenza superiore per gli uomini (20,4% contro 18,7%). Infine, quando il figlio o la figlia si è unito o si è unita civilmente, la madre e il padre non hanno accolto il partner come parte della famiglia, rispettivamente, nel 4,8% e nel 6,4% dei casi.

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Instagram

  • «Era terribile durante il fascismo essere transessuale. Mi picchiavano e mi facevano fare delle cose schifose. Mi imbrattavano con il catrame e mi hanno rasato. Ho preso le botte dai fascisti perché mi ero atteggiato a donna e per loro questo era inconcepibile».

È morta a quasi 99 anni Lucy Salani, attivista nota come l’unica persona trans italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti.

#lucenews #lucysalani #dachau
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  • Elaheh Tavakolian, l’iraniana diventata uno dei simboli della lotta nel suo Paese, è arrivata in Italia. Nella puntata del 21 marzo de “Le Iene”, tra i servizi del programma di Italia 1, c’è anche la storia della giovane donna, ferita a un occhio dalla polizia durante le proteste in Iran. Nella puntata andata in onda la scorsa settimana, l’inviata de “Le Iene” aveva incontrato la donna in Turchia, durante la sua fuga disperata dall’Iran, dove ormai era troppo pericoloso vivere. 

“Ho molta paura. Vi prego, qui potrebbero uccidermi” raccontava l’attivista a Roberta Rei. Già in quell’occasione, Elaheh Tavakolian era apparsa con una benda sull’occhio, a causa di una grave ferita causatale da un proiettile sparato dalle forze dell’ordine iraniane durante le manifestazioni a cui ha preso parte dopo la morte di Mahsa Amini.

Elaheh Tavakolian fa parte di quelle centinaia di iraniani che hanno subito gravi ferite agli occhi dopo essere stati colpiti da pallottole, lacrimogeni, proiettili di gomma o altri proiettili usati dalle forze di sicurezza durante le dure repressioni che vanno avanti ormai da oltre sei mesi. La ragazza, che ha conseguito un master in commercio internazionale e ora lavora come contabile, ha usato la sua pagina Instagram per rivelare che le forze di sicurezza della Repubblica islamica stavano deliberatamente prendendo di mira gli occhi dei manifestanti. 

✍ Barbara Berti

#lucenews #lucelanazione #ElahehTavakolian #iran #leiene
  • Ha 19 anni e vorrebbe solo sostenere la Maturità. Eppure alla richiesta della ragazza la scuola dice di no. Nina Rosa Sorrentino è nata con la sindrome di Down, e quel diritto che per tutte le altre studentesse e studenti è inviolabile per lei è invece un’utopia.

Il liceo a indirizzo Scienze Umane di Bologna non le darà la possibilità di diplomarsi con i suoi compagni e compagne, svolgendo le prove che inizieranno il prossimo 21 giugno. La giustificazione – o la scusa ridicola, come quelle denunciate da CoorDown nella giornata mondiale sulla sindrome di Down – dell’istituto per negarle questa possibilità è stata che “per lei sarebbe troppo stressante“.

Così Nina si è ritirata da scuola a meno di tre mesi dalla fine della quinta. Malgrado la sua famiglia, fin dall’inizio del triennio, avesse chiesto agli insegnanti di cambiare il Pei (piano educativo individualizzato) della figlia, passando dal programma differenziato per gli alunni certificati a quello personalizzato per obiettivi minimi o equipollenti, che prevede l’ammissione al vero e proprio esame di Maturità. Ma il liceo Sabin non ha assecondato la loro richiesta.

Francesca e Alessandro Sorrentino avevano trovato una sponda di supporto nel Ceps di Bologna (Centro emiliano problemi sociali per la Trisomia 21), in CoorDown e nei docenti di Scienze della Formazione dell’Alma Mater, che si sono detti tutti disponibili per realizzare un progetto-pilota per la giovane studentessa e la sua classe. Poi, all’inizio di marzo, la doccia fredda: è arrivato il no definitivo da parte del consiglio di classe, preoccupato che per la ragazza la Maturità fosse un obiettivo troppo impegnativo e stressante, tanto da generare “senso di frustrazione“, come ha scritto la dirigente del liceo nella lettera che sancisce l’epilogo di questa storia tutt’altro che inclusiva.

“Il perché è quello che ci tormenta – aggiungono i genitori –. Anche la neuropsichiatra concordava: Nina poteva e voleva provarci a fare l’esame. Non abbiamo mai chiesto le venisse regalato il diploma, ma che le fosse data la possibilità di provarci”.

#lucenews #lucelanazione #disabilityinclusion #giornatamondialedellasindromedidown
L'Italia non è un Paese per la comunità Lgbt+. Una persona su tre, tra omosessuali e bisessuali, è stata discriminata sul lavoro. E ancora peggio, forse, il fatto che una persona su cinque abbia subito un'aggressione o abbia vissuto un clima ostile sul luogo di lavoro. A certificarlo è la nuova indagine Istat-Unar sulle discriminazioni lavorative nei confronti delle persone Lgbt+, anno 2020-2021.
In Italia una persona Lgbt+ su cinque ha subito un'aggressione sul luogo di lavoro (Fonte indagine Istat-Unar, 2020-2021)
L'indagine Istat-Unar è scioccante. Una persona su cinque ritiene che il proprio orientamento sessuale sia stata la causa di svantaggi lavorativi, sia in termini di avanzamenti di carriera, sia in termini di crescita professionale. Nel complesso - l'indagine è stata condotta su oltre 20mila persone residenti in Italia che al primo gennaio 2020 risultavano in unione civile o già unite civilmente (per sciogliemento dell'unione civile o per decesso del partner) - il 26% delle persone occupate o ex occupate, ovvero più di una persona su quattro, pensa che essere omosessuale o bisessuale abbia rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa. Nel rapporto è emerso poi che oltre il 20% degli intervistati, una persona su cinque, ha avuto difficoltà in famiglia dopo aver fatto coming out.

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Il fenomeno più diffuso tra dipendenti o ex-dipendenti che hanno vissuto un clima ostile a lavoro riguarda più spesso l'essere stati calunniati, derisi o aver subito scherzi pesanti (46,5%), l'essere stati umiliati o presi a parolacce (43,9%). L'episodio maggiormente segnalato dagli indipendenti è invece l'aver ricevuto offese, incluse quelle di tipo sessuale (45,6%). Anche in questi casi sono le donne a subire tali offese più di frequente (43,8% contro il 30,3% degli uomini). Inoltre il 23,1% delle persone omosessuali o bisessuali, circa una persona su quattro, dichiara di essere stato minacciato in forma verbale o scritta, e il 5,3% di aver subito un'aggressione fisica, con incidenze più alte tra gli uomini.

Il 70% delle persone evita di tenersi per mano in pubblico

Le persone Lgbt+ hanno comunicato di aver dovuto cambiare vita o stile di vita per evitare discriminazioni. Il 16,8% degli intervistati, circa una persona su sei, si è trasferito in un altro quartiere, altro Comune, o all'estero per vivere più tranquillamente la propria omosessualità o bisessualità. Un altro dato agghiacciante è che oltre il 68,2% degli intervistati ha evitato di tenersi per mano in pubblico con un partner dello stesso sesso per paura di essere aggredito, minacciato o molestato; un comportamento più comune tra gli uomini (69,7%), sebbene anche per le donne la percentuale sia molto elevata (65%). Il 52,7%, più di una persona su due, ha evitato di esprimere il proprio orientamento sessuale per paura di essere aggrediti, minacciati o molestati.
Il 70% delle persone evita di tenersi per mano in pubblico (Fonte indagine Istat-Unar, anno 2020-2021)

Una persona su cinque ha avuto difficoltà in famiglia dopo il coming out

Nella quasi totalità dei casi la famiglia di origine e gli amici delle persone in unione civile o già in unione è a conoscenza dell'attuale orientamento sessuale, ma per alcuni degli intervistati la decisione di renderlo noto (coming out) ha generato una reazione negativa da parte dei genitori. La madre ha mostrato ostilità o rifiuto in più di un quinto dei casi (21,8%), in misura maggiore per le donne (28,8% a fronte del 18,1% degli uomini). Una quota poco meno elevata riguarda la reazione negativa dei padri (19,8%), con un'incidenza superiore per gli uomini (20,4% contro 18,7%). Infine, quando il figlio o la figlia si è unito o si è unita civilmente, la madre e il padre non hanno accolto il partner come parte della famiglia, rispettivamente, nel 4,8% e nel 6,4% dei casi.
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