Media e narrazione dello stupro, Valentina Mira: “Una delicatezza da imparare”

L'intervista in Rai alla vittima dello stupro di Palermo è l'ennesimo caso di spettacolarizzazione della violenza sulle donne. Come deve cambiare il giornalismo? Ne parliamo con la collega Valentina Mira

di TERESA SCARCELLA -
11 novembre 2023
valentina mira

valentina mira

Quanto accaduto in Rai qualche sera fa, nel programma di Nunzia de Girolamo, con ospite la giovane vittima dello stupro di gruppo di Palermo che ha scatenato mesi di dibattiti, più o meno costruttivi, ci ha spinto a contattare Valentina Mira, giornalista, scrittrice, che più volte ha parlato e scritto su quella che è la narrazione nei media - il più delle volte sbagliata - della violenza di genere, spesso trattata come materia da salotto. Nel 2021 Mira ha pubblicato, per Fandango, il suo primo libro "X" con cui affronta il tema della violenza sulle donne, partendo da quella che è stata la sua esperienza personale. Vuole contribuire a spezzare un tabù, quello dello stupro - come ha spiegato la stessa autrice nelle varie interviste rilasciate dopo la pubblicazione - cercando di rispedire la vergogna al mittente (chi stupra), e cercando parole serene, oneste e non rivittimizzanti. Rabbia e non solo lacrime.
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"X" il libro di Valentina Mira pubblicato nel 2021

È un libro di liberazione, dunque, scritto per provare a colmare una lacuna letteraria e aggiornare il romanzo italiano sullo stupro, ancora in larga parte ancorato alla violenza di guerra della Ciociara di Moravia, o all’orrore del Circeo della Scuola cattolica di Albinati. Ma nel libro parla anche di come i media trattano l’argomento.

Il peso delle parole

Due mesi fa lei è stata intervistata in Rai (per lo speciale Filorosso Caivano) in merito al suo libro "X", al quale ha affidato anni fa il racconto di una violenza subìta. Subito dopo quell'intervista ha acceso i riflettori sulle modalità invadenti del giornalismo.

Pochi giorni fa è accaduta una cosa simile alla vittima dello stupro di gruppo di Palermo. Cosa, esattamente, c'è di sbagliato nella sua intervista e in quest'ultima citata?

"Su com’è andata nel mio caso parlo diffusamente in un articolo su Valigia Blu, a cui rimando perché non mi va di semplificare e riassumere una questione così grave in due parole. Invece, per quanto riguarda la giovane donna che è stata in tv da poco invito a leggere la lettera alla Rai firmata da più di 300 persone e associazioni tra le più stimabili dItalia (per inciso: tra le uniche che la lotta agli stupri la fanno davvero).

Personalmente ho trovato di una violenza inaudita obbligare una donna violentata da sette uomini a sentirsi leggere i messaggi in cui su internet le danno delle tr*ia. Di una mancanza di deontologia e di una violenza inaudita. Stiamo parlando di diffamazione. Stiamo parlando di servizio pubblico che si fa tramite di una diffamazione travestita da dovere di cronaca, che censura i nomi dei diffamatori (e qui capiamo bene da che parte stanno).

Nunzia de Girolamo avrebbe apprezzato essere invitata a una trasmissione in cui le si fa leggere un frustrato a caso che su internet le dà della tr*ia? Non credo. E allora perché pensa che vada bene farlo con una giovane donna che ha da poco subito una violenza di quel tipo? Sono agghiacciata".

È evidente che il giornalismo, ancora oggi, non sappia parlare di violenza senza cadere in errori che oscillano tra la colpevolizzazione della vittima e la pornografia del dolore. Errori nella scelta delle parole e delle modalità, ma anche nell'approccio fisico che si ha nei confronti della persona intervistata, mi riferisco anche alle espressioni facciali. Secondo lei perché? Non c'è abbastanza formazione?

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Nunzia de Girolamo mentre intervista la giovane vittima dello stupro di Palermo

"Il problema non è la formazione, ma il motivo per cui ci sono persone che nel giornalismo italiano arrivano a dei posti di potere e altre che devono scappare da dove lavorano e ricominciare da capo. La FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) nel 2019 ha pubblicato unindagine in cui si rileva che l85% delle giornaliste ha subito molestie nelle redazioni. Questo dato, che è fuori scala anche rispetto ad altri ambiti lavorativi, ci spiega che il problema non è che a questa gente manca la formazione. Questa gente lavora fianco a fianco con molestatori e tace.

Solo così si può sopravvivere ai piani alti in un ambiente in cui giocare secondo le regole del potere è più importante dello studio. Pertanto ritengo che si dovrebbe partire dalla struttura delle redazioni, creando organi esterni ad hoc per, intanto, epurare le redazioni dalle molestie. Rendendoli ambienti in cui la formazione è premiata e non messa in fuga da chi ti chiede di fare sesso per lavorare, e ti punisce se dici di no. Poi si può parlare di formazione".

La rincorsa ai click e allo share

Il giornalismo, per così dire, intellettuale o sedicente tale, si lamenta spesso di un'assenza di controllo sui social e sui nuovi canali di informazione, dove si trova praticamente di tutto, quindi anche contenuti di basso livello che rispondono a quelli che sono gli interessi morbosi di un certo tipo di utenti. Invece che contrapporre a questo tipo di informazione un'altra più ricercata e più rispettosa, il giornalismo tende forse ad adattarsi alle medesime dinamiche, scadendo quindi nella spettacolarizzazione? O era un'abitudine già in essere?

"In parte è chiara una ricerca del click facile da parte dei giornali, che rende molto ipocrita la critica ai social media. C’è perfino gente che dice di fare inchiesta, e chiama con questo nome lessere semplicemente entrato su un gruppo Facebook di quartiere. No, da persona che scrive sui giornali - tra alti e bassi, visto com’è lambiente - da quattordici anni, trovo che la pessima qualità di certe trasmissioni non abbia a che fare coi social, che nonostante tutti i loro chiari difetti talvolta sono il posto dove circolano delle contronarrazioni molto valide, paradossalmente antidoto a uninformazione controllata dallalto.

Che poi gli stessi social siano una forma di controllo su un piano ancora più ampio e internazionale è evidente. Follow the money, no? Vale sia per i social che per i giornali. Se è vero che il pesce puzza sempre dalla testa, capire di chi sia quella testa è importante".

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Valentina Mira, giornalista e scrittrice

Rispetto della deontologia: si può fare di più?

Da giornalista sa bene che nel nostro lavoro si parla spesso di deontologia. Si parla, appunto. Perché la nostra deontologia prevede il famoso (evidentemente poco conosciuto, sicuramente poco rispettato) Manifesto di Venezia, che fondamentalmente raccoglie tutta una serie di regole e linee guida sulle modalità di raccontare il dramma della violenza di genere. Regole e raccomandazioni puntualmente violate. L'Ordine dei giornalisti potrebbe fare qualcosa di più? C'è abbastanza controllo secondo lei?

"Sinceramente? Non ho mai capito perché lordine dei giornalisti lasci passare praticamente qualunque violazione della deontologia come fosse acqua fresca. Credo che chi ci legge sappia che lordine dei giornalisti è una specificità italiana, e mi dispiace dire che se il suo senso è fare del mero corporativismo (difesa indiscriminata della categoria) invece di garantire il rispetto degli esseri umani intervistati, per esempio, allora non capisco a cosa e a chi serva, a parte a se stesso e alla difesa dello status quo".

Proviamo a spiegare con il suo aiuto come si dovrebbe raccontare la violenza sulle donne? Quale potrebbe essere un approccio rispettoso del dramma vissuto e della persona che il/la giornalista ha davanti, pur rispettando il diritto di cronaca. Qual è, appunto, il limite tra il racconto dei fatti e l'invasione dello spazio altrui?

"Due linee molto nette e definite: il consenso della parte lesa è la prima, imprescindibile. La seconda, a mio parere altrettanto imprescindibile, è confrontarsi e - qui sì, fare formazione - con le realtà femministe. Non quelle che si dicono tali, non quelle che ci costruiscono carriere sopra e neanche le scrittrici come me, le singole persone insomma, che non hanno il diritto di dettare la linea a nessuno.

Bisogna sentire gli spazi che da decenni ospitano donne uscite da situazioni di violenza. A Roma per esempio abbiamo delle realtà come Lucha y Siesta, che sono un faro nel deserto istituzionale. Bisogna sentire loro e farsi indirizzare. Lumiltà di dire questo non è il mio lavoro, è il suo” è o dovrebbe essere parte del nostro mestiere. Porgere il microfono. Fare, nel senso più alto del termine, informazione".

 
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“Né lupo né Cappuccetto Rosso”

Senza cadere nella banalizzazione della questione, nel concreto ci sono parole, domande, assolutamente da evitare? 

"Tutto ciò che disumanizza chi ha stuprato impedendo al pubblico di capire che quella cosa non è lontana da sé e non siamo in una brutta fiaba: parole come animale, branco, mostro, lupo, pazzo. Riportare alla persona violentata commenti lesivi della sua persona e della sua dignità (e le assicuro che ci vuole una caterva di dignità per esporsi a unintervista sul proprio stupro, e coraggio, e anche fiducia negli esseri umani): per cui evitare di dirle che qualcuno su internet le ha dato della poco di buono (a che pro, de Girolamo?).

Evitare di mettere laccento sul fatto che la persona offesa avesse bevuto, salvo per ricordare che la legge prevede che se si infierisce su qualcuno che è in stato di minorata difesa c’è unaggravante; evitare di indagare sul background familiare e sociale di chi è stato violentato, perché come non ci interessa del padre dello stupratore non ci deve interessare del padre della donna che quello stupro lo ha subito. Evitare di invadere lo spazio fisico dellintervistata. Evitare patetismi poco professionali (mi hai fatta piangere, soprattutto se la persona intervistata non solo non sta piangendo, ma al contrario sta dando prova di grande tenuta di sé).

Evitare di infantilizzare chi hai davanti. A me in quellintervista fu tolto il cognome, lidentità, la professione. E questo nonostante avessimo concordato per iscritto di non farlo. Evitare di dare giudizi di valore, quindi sia la narrazione su leroinasia quella su la poveretta. Siamo persone.

È paradossale, ma talvolta penso che se si trattasse chi ha subito uno stupro con lo stesso rispetto che si avrebbe per un impiegato di banca che ha subito una rapina si sarebbe infinitamente più professionali. Gli chiederesti comera suo padre? Gli chiederesti se il giorno della rapina aveva bevuto? Gli chiederesti cosa cerca nei suoi clienti, se gli hanno mai rubato - non so - il portafogli fino a quel momento?"

La scelta della 19enne, o più in generale di una vittima di violenza, di metterci la faccia e raccontare la sua esperienza è una scelta sicuramente personale, a mio avviso coraggiosa e potenzialmente utile a inviare messaggi educativi sul tema, ovviamente se veicolata nel modo giusto. Ma è una scelta che espone inevitabilmente a giudizi negativi e nuovamente al rischio di essere colpevolizzate. Come può il/la giornalista tutelare la vittima e ridurre al minimo questo rischio?

"Tutelando a costo di mettere a rischio il proprio posto di lavoro da capi sciacalli (se ce ne sono) la persona intervistata. Penso a questo articolo, al rischio che nuovamente anchio mi prendo esponendomi su questo argomento, alla paura che ho che il titolo e il sottotitolo, o le caption sui social che accompagneranno larticolo quando uscirà - magari per fare clickbaiting - mi esporranno al pubblico ludibrio.

So che ne uscirei con la schiena ammaccata ma dritta, perché sempre così è per chi agisce secondo coscienza e ha fiducia nelle collettività femministe che esistono in questo paese, così piene di cura e di santa rabbia; ma anche, iniziamo da qui. Dal chiederti, tra colleghe, nelle righe di unintervista scritta con le migliori intenzioni, di scegliere di tutelarmi rispetto alle parti non concordate (cioè titolo, sottotitolo, modo in cui lanciare la notizia sui social).

Partiamo dal farlo tra colleghe. Rendiamo trasparente questo cambiamento necessario nel giornalismo italiano, pieno zeppo di molestatori per sua stessa ammissione. Poi, quando riusciremo a fare questo sempre e in ogni caso, potremo fornire un servizio rispettoso a tutta la collettività. Intanto, grazie per lintervista e per aver deciso di permettermi di dire la mia. Non è una possibilità che hanno tutti e io stessa non lho avuta fino a pochi anni fa, spero quindi di non averla sprecata. Grazie per lascolto, perché è il fulcro del nostro lavoro, e questo non dovremmo dimenticarlo mai".

  (Ovviamente non abbiamo ignorato la richiesta di tutelare l'intervistata, lo avremmo fatto a prescindere. Luce! crede fermamente nel cambiamento)