Il Mediterraneo, tra naufragi, guerre e onde di pace

Come pensare a una ‘reintegrazione’ se nel mondo attuale prevale la violenza? Dall’incontro di Parigi promosso dalla Comunità di Sant’Egidio alcune proposte, da Kepel a Vauchez

di MICHELE BRANCALE
24 settembre 2024
Voci a confronto per un Mediterraneo pacificato (foto da santegidio.org)

Voci a confronto per un Mediterraneo pacificato (foto da santegidio.org)

Il Mediterraneo è un mare agitato dalla Storia ed è un luogo determinante per le scelte geopolitiche; da una parte unisce e dall’altra è teatro delle tensioni dei Paesi che vi si affacciano, sotto il profilo dell’assetto interno (Tunisia, Israele, Palestina) e della loro capacità di misurarsi con fenomeni strutturali colti sempre come emergenze (l’immigrazione).

Ma tra conflitti, fragilità democratica e migrazioni c’è un collegamento profondo. Lo storico André Vauchez vede in Francesco d’Assisi il primo occidentale a comprendere il legame tra povertà e guerra, che lascia dietro detenuti, invalidi e la necessità di processi di reintegrazione dopo la violenza. Voci autorevoli si sono misurate su questi punti nevralgici a Parigi, al convegno internazionale su ‘Immaginare il futuro’, in un confronto moderato da Vittorio Ianari (Comunità di Sant’Egidio).

Dunque come pensare alla “reintegrazione” mentre la violenza è esplicita o latente? C’è innanzitutto da cogliere lo “spirito del tempo”, sostiene Dominique Moïsi, consigliere speciale dell’Institut Montaigne di Francia, in modo da trovare le parole chiave per comprendersi e comprendere i fatti storici e non finire nel precipizio. Insomma, non lasciarsi ingessare dagli attori del presente nelle diverse latitudini anche perché “le maggioranze politiche non sono eterne”, anche quelle che non vogliono cogliere la sfida delle migrazioni, alla quale, spiega Ghaleb Bencheikh, presidente della Fondation de l’Islam de France, “guardare non con il contatore in mano perché così il mare è diventato un cimitero”.

Certo accanto allo “spirito del tempo” bisogna cogliere anche quello che il politologo Gilles Kepel, chiama “bouleversement” (sconvolgimento del mondo), nel quale, per riprendere un’immagine di Bencheik, il diritto internazionale è svuotato dai veti incrociati. Il nodo Israele-Palestina è decisivo per tutti gli interlocutori, oltre responsabilità di attori contingenti e modalità che si sono come ossidate nel corso degli anni: c’è la fase bellica ma “la pace è pensare al dopo” dice Kepel. In che modo? Per il cardinale Gualtiero Bassetti si tratta di “ribadire la supremazia dei percorsi di dialogo”.

Naftali Haleve, turco e membro della Conférence des rabbins d’Europe, una ricerca “individuale” non porta lontano, anzi “nella ricerca di soluzioni individuali a problemi che interessano e colpiscono tutta l’umanità si arriverà alla fine a dar luogo a nuovi stalli sociali. Credo che questo sia quanto sta accadendo oggi nel ‘bacino del Mediterraneo’, come in altre parti del mondo”. Il presidente emerito della Repubblica di Tunisia Moncef Marzouki al Medio Oriente propone la “formula Mandela”, per attualizzarla al presente delle parti in conflitto e tenere vivo il barlume della speranza.

Un’informazione corretta gioca un ruolo decisivo e anche per questo Khadija Benguenna, giornalista di Al Jazeera, lamenta “la chiusura di autorità e in diretta tv del nostro ufficio” per la colpa di avere una penna e contravvenire al silenzio.