“Mio figlio autistico da 14 giorni in psichiatria”: la storia di Gabriele e della nostra impreparazione

Ha 43 anni, da due settimane è ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale Molinette di Torino dopo che una crisi epilettica ha compromesso la sua permanenza in comunità. Il padre Gianfranco Vitale: “Il sistema non funziona. Si ha poca cura dei processi riabilitativi”

di GIAMBATTISTA ANASTASIO -
27 giugno 2024
Gianfranco Vitale

Gianfranco Vitale

Torino, 27 giugno 2024 – Come può accadere che una persona nello spettro autistico finisca nel reparto psichiatrico di un ospedale? Che un letto di psichiatria finisca per essere ritenuto l’unico posto possibile in cui accoglierla? Come si è arrivati fin qui? E come se ne esce, ora? Quanta strada c’è da ri-fare se quella percorsa finora ha condotto a questo esito? Piani autismo regionali, leggi nazionali, convenzioni e dichiarazioni internazionali su disabilità e neurodivergenza, il rito dei calzini spaiati ogni 2 febbraio, ma poi ci si ritrova con queste domande, quelle che esalano come fumo dalla storia di Gianfranco Vitale, 75 anni, e suo figlio Gabriele, 43enne nello spettro autistico.

Con oggi sono 14 giorni che Gabriele è ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Molinette di Torino. Quattordici. Per quelle domande Gianfranco ha una risposta che non mira ad alcuno in particolare ma abbraccia le responsabilità di tutti: dei singoli, degli addetti ai lavori, delle istituzioni che sono intervenute a vario titolo in questi anni e di quelle che invece non lo hanno fatto. Questa storia sembra essere rivelatrice della segmentazione dei servizi e delle competenze: è come se di segmento in segmento si sia inavvertitamente costruita la linea retta che ha condotto Gabriele in psichiatria. Mancanze che si sono via via sommate generando l'effetto valanga.

“La parola sulla quale lavorare – dice questo padre – è sistema. Conoscenza della disabilità, formazione specifica, personalizzazione dei percorsi e delle terapie, coinvolgimento delle famiglie, inserimento dei nostri ragazzi nella società, nei contesti della quotidianità e, non ultima, la sensibilità nei confronti del prossimo: un sistema che voglia davvero prendersi cura della disabilità deve esser fatto di tutto questo e in tutto questo deve investire risorse. Invece sulla disabilità si standardizza, si ha poco cura dei processi abilitativi e riabilitativi, si risparmia, si preferisce investire in altro”.

E nel sistema manca sempre qualche pezzo, qualche luogo o qualche servizio dedicato. Per questo una persona nello spettro autistico può finire in psichiatria "sebbene sia conclamato che l’autismo – sottolinea Gianfranco – non è una malattia mentale”. Colpisce la lucidità di questo padre: “Io non voglio prendermela contro la comunità nella quale risiede Gabriele, contro l’ospedale o contro il giudice che mi ha impedito di essere tutore legale di mio figlio: io voglio che siano affrontate alcune domande che questa esperienza pone per evitare che altri vivano domani quello che noi stiamo vivendo oggi”.

Gabriele Vitale, 43 anni, nello spettro autistico
Gabriele Vitale, 43 anni, nello spettro autistico

Dalla crisi al ricovero

Tutto è iniziato i primi giorni di giugno, quando Gabriele, in comunità, ha avuto “una crisi epilettica annunciata”. “Sì, la definisco annunciata – spiega il padre – perché già da qualche mese avevo notato segni di peggioramento. Li ho riferiti al neurologo che, evidentemente, non li ha tenuti nella dovuta considerazione. Durante questa crisi epilettica Gabriele si è fatto male alla clavicola e alla testa. È stato portato in ospedale, al pronto soccorso del Martini di Torino, dove lo hanno medicato, gli hanno messo un tutore per la clavicola, gli hanno applicato alcuni punti di sutura vicino alla tempia e dopo 24 ore lo hanno dimesso”.

Gabriele a questo punto torna in comunità, ma via via che passano i giorni suo padre si rende conto che il trauma della crisi epilettica e di quelle 24 ore in ospedale è ancora lì insieme a suo figlio: “Lo vedevo provato e ogni volta tornava a raccontarmi di quello che gli era appena successo: del tutore, degli ematomi, dei punti di sutura, senza che io riuscissi a fargli cambiare argomento”. I comportamenti disfunzionali e disadattivi di Gabriele si fanno più frequenti del solito: “Ad esempio, ha iniziato a svegliarsi alle 3 di notte e a svegliare tutti gli altri ospiti della comunità parlando ad alta voce” spiega Gianfranco. Fino a quando i responsabili della comunità “si arrendono, decidono che lui non può più stare lì perché rappresenta un problema per gli altri ospiti”. Così Gabriele viene condotto di nuovo in ospedale, di nuovo al Martini e, infine, al Molinette. “Qui mio figlio è stato presentato come uno che può far del male, che non dorme, che si sveglia in piena notte e parla ad alta voce o urla... Ecco, dopo essere stato descritto in questo modo, i medici hanno deciso di ricoverarlo al reparto di psichiatria”.

Con lui c’è sempre un operatore della comunità, fanno a turno. Ma è a questo punto che iniziano le domande, le stesse di cui sopra: è la psichiatria di un ospedale il posto più promettente per una persona nello spettro autistico? Lo è davvero se questa persona sta attraversando un periodo più complicato di altri? Che percorso può intraprendere Gabriele in quel reparto? Come può riuscire ad allontanare il trauma della crisi epilettica, della clavicola e del tutore, degli ematomi e dei punti di sutura, del pronto soccorso e della degenza in un posto a lui estraneo? Gianfranco guarda anche un poco più indietro, a quelle responsabilità che precedono l’ospedale: si chiede perché solo lui abbia fatto caso alle avvisaglie di peggioramento poi sfociate in quella “grossa crisi epilettica”. Guardando ancora più indietro, si chiede se sia giusto che un ragazzo viva costantemente in una comunità per persone con disabilità senza che sia messo in condizione “di avere un lavoro che gli consenta di uscirne per alcune ore al giorno”, di inserirsi in uno di quei contesti che fanno parte della quotidianità di chiunque. Il sistema sta rivelando più di un pezzo mancante. E a farne le spese sono i tanti Gabriele: il suo e altri. Si è davvero pronti per loro?

Non bastasse, in questi giorni al ragazzo è stata diagnosticata pure una polmonite: “Questo significa che adesso c’è un motivo in più per il quale deve restare in ospedale – spiega Gianfranco –: deve bere acqua in gel, non può berla dal rubinetto come gli è sempre piaciuto fare in comunità”. A Gabriele è sempre piaciuto bere anche il caffè d’orzo ma seguendo un rito preciso: sempre e solo durante le libere uscite con suo padre, sempre e solo dai distributori automatici che si trovano lungo le strade, sempre e solo attingendo dallo stesso portamonete, il suo, quello che ha sempre riposto nello stesso angolo del vano portaoggetti dell’auto di suo papà. Sempre. Immancabilmente. Tranne un giorno di giugno. Tranne il giorno in cui ha avuto quella crisi epilettica. Allora quel portamonete non è stato rimesso al suo posto. Ma soltanto suo padre ha saputo capire che cosa questo significasse.