“Vi racconto perché ho deciso di fondare una ONG”. La missione di Regina Egle

“Ci sono esempi concreti che dimostrano che, se ben gestita, l’accoglienza non è un problema o una minaccia, ma una risorsa. Pensiamo a Riace”

di GUIDO GUIDI GUERRERA
28 novembre 2024

dell’attivista Regina Egle Liotta Catrambone, Migrant Offshore Aid Station (MOAS)

La storia dell’attivista Regina Egle Liotta Catrambone inizia da Reggio Calabria, la città dove è nata e cresciuta e dove fin da giovanissima ha mosso i primi passi nel campo del sociale. Considerare valori come la fratellanza, la solidarietà e l’umanità universale alla stregua di pilastri centrali della sua vita, l’ha portata a fondare con il marito Christopher Paul Catrambone l’ONG internazionale Migrant Offshore Aid Station (MOAS). Grazie a questa attività è arrivata a salvare dal 2013 ben 40.000 migranti naufraghi a bordo di fatiscenti barconi tra il mar Egeo e il Mediterraneo Centrale. 

“Ho sempre creduto che, al di là delle differenze, siamo tutti esseri umani, senza barriere né confini – afferma Regina – Ed è per questo che mi sono appassionata a temi come le migrazioni, l’integrazione e i diritti umani e sociali, comprendendo quanto fosse importante abbattere le barriere tra le persone.”

Sarà il tragico naufragio di 11 anni fa, al largo di Lampedusa, a segnare un punto di svolta decisivo. Quel giorno, 368 vite sono state spezzate, e la gravità della crisi migratoria spinge l’attivista a riflettere profondamente su cosa poter fare, in modo concreto, per evitare il ripetersi di simili tragedie. A colpirla in quella tremenda circostanza sono state le parole del Papa, che invitava tutti a fare la propria parte attingendo alla proprie risorse: un appello che avrebbe toccato la sua sensibilità rafforzando la sua decisione di agire. Un richiamo forte che l’ha spinta a dedicare l’intera esistenza al sostegno delle persone migranti, impegnandosi attivamente per quanti rischiavano la vita nelle acque del Mediterraneo. “Da quel momento è iniziata la mia missione con MOAS, e successivamente con il MAEC – conclude Regina – ferma nel proposito di trasformare il Mediterraneo da luogo di tragedia in spazio di speranza, cooperazione e solidarietà.”

La sua avventura inizia, dunque, a Malta con MOAS. In che misura ha tratto insegnamenti o stimoli da quell'isola?

“Quando nel 2013 con la mia famiglia abbiamo deciso di fondare il MOAS (Migrant Offshore Aid Station), sentivamo l’urgenza di rispondere a una crisi umanitaria nel Mediterraneo, dove migliaia di persone perdevano la vita senza che ci fosse una missione statale o europea a soccorrerle. Il 25 agosto 2014, quando la nostra nave è salpata dal Grand Harbour di Malta, abbiamo dato vita alla prima missione di Ricerca e Soccorso mai lanciata da un’organizzazione non governativa in mare aperto. Oggi, a undici anni di distanza, posso dire che l’esperienza mi ha insegnato moltissimo. Prima di tutto, che quando si crede profondamente in una causa, è possibile lanciare il cuore oltre l’ostacolo. La volontà di fare qualcosa per gli altri può superare qualsiasi difficoltà. Un altro insegnamento è stato comprendere quanto l’indifferenza sia uno dei mali più gravi della nostra società. Come si può restare fermi o distogliere lo sguardo di fronte a tragedie umane?”.

Si può dire che MAEC in Italia ha tutte le carte in regola per avere quella che si dice una marcia in più?

“Il MAEC (Mediterranean Aid Education Center) nasce da un’esperienza di undici anni sul campo, un percorso che ha visto l’evoluzione del MOAS ITALIA e l’adattamento delle nostre attività per rispondere alle nuove sfide globali. Le rotte migratorie non si limitano al deserto o al mare. Si sviluppano molto prima, nella mente di chi immagina la migrazione come unica via d’uscita, e proseguono nel lungo e complesso processo di integrazione in Europa. Il MAEC lavora su tutti questi fronti. Da un lato, siamo impegnati in progetti educativi nei Paesi di origine, sensibilizzando sui pericoli delle rotte migratorie e offrendo alternative che possano incentivare le persone a rimanere nel proprio Paese, creando opportunità attraverso l’istruzione e lo sviluppo economico. Dall’altro lato, ci occupiamo di supportare l’integrazione delle persone migranti che riescono a raggiungere l’Europa, garantendo che abbiano accesso a percorsi inclusivi che rispettino la loro dignità. Un altro aspetto fondamentale del lavoro del MAEC, è l’advocacy sulle vie sicure e legali di migrazione. Questa visione integrata, che affronta la migrazione come un fenomeno globale e sfaccettato, rappresenta la nostra marcia in più e un impegno a lungo termine.”

In che modo si possono cambiare le regole dell'accoglienza?

“Cambiare le regole dell’accoglienza richiede innanzitutto la volontà politica, sia a livello nazionale che europeo. Senza questo impegno, sarà difficile ottenere un cambiamento strutturale. Tuttavia, anche senza un intervento immediato dall’alto, possiamo aprire spiragli di speranza attraverso micro-modelli locali che possano ispirare nuove politiche. Ci sono esempi concreti che dimostrano che, se ben gestita, l’accoglienza non è un problema o una minaccia, ma una risorsa dal punto di vista economico, culturale e sociale. Penso a modelli come Riace, dove l’integrazione ha rivitalizzato intere comunità, trasformando la migrazione in una forza positiva. È fondamentale capire che le rotte migratorie non si fermano con l’arrivo in Europa, ma proseguono con il difficile percorso di integrazione e inclusione che i migranti affrontano ogni giorno.”

Ci racconta un aneddoto emblematico?

“Tra tutte le persone che ho avuto la fortuna di incontrare nel corso degli anni, Salim è uno di quei volti che non dimenticherò mai. La sua storia è un simbolo di resilienza e speranza. L’ho conosciuto nel 2017, durante una missione di MOAS Italia (ora MAEC), nel campo profughi di Kutupalong, in Bangladesh. Salim è nato e cresciuto lì, in un luogo segnato da sofferenza e privazioni, insieme a oltre 600.000 altre persone che, come i suoi genitori, erano fuggite dal Myanmar. Nonostante questo contesto estremamente difficile, Salim non si è mai lasciato abbattere. Lavorava come mediatore culturale nelle nostre stazioni umanitarie, cercando ogni giorno di costruire ponti tra comunità diverse e di alleviare le sofferenze di chi, come lui, non aveva conosciuto altro che la vita in un campo profughi. Quello che mi ha colpito profondamente è stato il suo spirito instancabile. Non si limitava a fare il suo lavoro, ma si metteva in prima linea e in un contesto in cui molti avrebbero perso la speranza, lui ha trovato una via per raccontare al mondo ciò che accadeva nel campo: attraverso la fotografia. Attraverso il suo obiettivo, ha immortalato volti, storie e momenti di vita quotidiana, dando visibilità a una realtà che spesso rimane nell’ombra.”

Che prospettive per il futuro?

“Nel breve termine, il nostro obiettivo principale è identificare e ottenere fondi per sostenere progetti di cooperazione che possano rispondere ai bisogni delle persone più vulnerabili. Tuttavia, non ci fermiamo qui. È fondamentale sviluppare strategie che guardino al medio e lungo termine, per garantire la sostenibilità di questi interventi. Questo significa investire non solo nell’assistenza immediata, ma anche in iniziative educative, formative e di inclusione sociale che permettano alle persone di ricostruirsi una vita dignitosa e autonoma. Inoltre, è essenziale stabilire partenariati solidi con organizzazioni locali e internazionali, rafforzando le capacità delle comunità di accoglienza e promuovendo soluzioni che possano essere replicate in contesti simili. Solo attraverso un impegno collettivo e una visione a lungo termine possiamo fare la differenza, creando un futuro in cui l’accoglienza e l’integrazione diventano un valore aggiunto per la società.”