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Home » Attualità » Raffaella, un fiore rinato dal dolore: “Superate la vergogna, abbiate coraggio, continuate a sperare”

Raffaella, un fiore rinato dal dolore: “Superate la vergogna, abbiate coraggio, continuate a sperare”

"Avevo imparato che ogni sua crisi sfociava comunque in una violenza nei miei confronti e accettavo di subirla senza protestare". Vittima di violenza domestica la donna di Taranto racconta un modus operandi che, purtroppo, si ripete in molti casi come il suo. Poi la svolta e la rinascita, grazie alle sue "Craste" e alla sua forza di volontà, di non arrendersi

Caterina Ceccuti
14 Marzo 2022
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Lei ha un cuore generoso e una grande creatività nella testa. E sono state proprio queste due doti a salvarla, a permetterle di risollevarsi e ricostruirsi un futuro, dopo aver attraversato l’inferno. Raffaella, originaria di Grottaglie, in Puglia, è una vittima di violenza domestica. A Luce! racconta la sua storia, che non è fatta solo di botte e minacce psicologiche, ma soprattutto di coraggio, forza d’animo e resilienza. E da giovane donna sconosciuta della provincia di Taranto si trasforma in un esempio per tante, un’eroina del nostro tempo che non ha paura di rivivere una, due, cento volte la propria storia pubblicamente, pur di evitare ad altre la stessa sorte. E denuncia l’inadeguatezza di un sistema che “chiacchiera tanto ma agisce poco” per la tutela delle vittime.

Raffaella e le sue Craste

“La giustizia è troppo lenta e i reati di genere fanno presto a cadere in prescrizione. A queste condizioni la persona violenta viene incentivata a farlo ancora e ancora”. Eppure lei ce l’ha fatta a liberarsi del suo aguzzino e rinascere, riprendendo in mano le doti artistiche che aveva dovuto chiudere in un cassetto perché suo marito non le permetteva di esprimerle. Ha creato un’opera d’arte che sta diventando famosa in Italia, la “Crasta” che –ci spiega– in Puglia significa semplicemente pianta in vaso. E boom! Dal 2016 ad oggi tutti pazzi per le Craste di Raffaella, vip compresi che affollano la pagina Instagram “Craste.Puglia” con primi piani insieme alle loro piante artistiche. Così Raffaella, alla fine, è riuscita a realizzare il suo grande sogno, mantenere se stessa e i suoi figli facendo qualcosa che ama: arte.

Raffaella è stata vittima di violenza domestica. Poi ha denunciato il suo aguzzino e si è rifatta una via con la sua arte

Raffaella, quando ha iniziato ad emergere la natura violenta del suo ex marito?

“Subito dopo il matrimonio. Fino a quel momento era stato bravo a nascondere la sua indole. Con me e con la mia famiglia si era dimostrato disponibile, affabile, simpatico. Nulla lasciava presagire ciò che poi sarebbe successo. Però quando ci siamo sposati ha iniziato a manifestare un carattere possessivo e geloso, maniaco del controllo. Voleva che il suo pensiero predominasse, dalle piccole cose alle più importanti. Ed è stato un crescendo continuo. Ha iniziato ad alzare la voce, poi è passato alle botte. In seguito ho scoperto che non era la prima volta”.

Quale è stata la sua reazione?

“All’inizio, d’istinto mi sono ribellata, ho cercato di farlo ragionare, di fargli capire che quel genere di atteggiamento non andava bene. Era sospettoso, iracondo. Alle sue crisi seguivano le liti, ma quanto più cercavo di ribellarmi a quel suo a atteggiamento tanto più in lui scattava l’ira. A quel tempo avevo un bambino piccolo, non volevo litigare davanti a lui, inoltre mi vergognavo del fatto che i vicini sentissero. Alla fine, per difendere il bambino, sono diventata passiva. Avevo imparato che ogni sua crisi sfociava comunque in una violenza nei miei confronti e che se accettavo di subirla senza protestare tutto sarebbe finito prima. Quel genere di persona segue schemi precisi e sempre uguali: l’accesso d’ira gli serve per sfogare una rabbia che gli è andata caricando dentro, fondamentalmente a causa di sciocchezze, e niente e nessuno può fermarlo o interrompere quel processo. Avevo imparato a non istigarlo, perché sapevo che sarebbe finita peggio. Lasciavo che terminasse quel che doveva fare, su di me, perché tanto mi avrebbe picchiata comunque. Era come vivere all’interno di un circolo vizioso. Ricordo che lui si caricava di rabbia per qualsiasi cosa, spesso mi ha picchiato per stupidate immense. Poi il giorno dopo si presentava da me con un regalo. Il modus operandi era sempre questo, che poi è lo stesso di tutti quelli che utilizzano la violenza come mezzo di supremazia”.

Raffaella e le Craste, piante in vaso nel dialetto pugliese

Quando e come ha trovato il coraggio di cacciarlo dalla sua vita?

“Non ho deciso di colpo. Per tre anni ho cercato una pseudo soluzione che potesse arrecare il male minore a me e ai miei due figli. Fortunatamente lui stava spesso fuori per lavoro, ma nelle settimane in cui era presente vivevo l’inferno. Inoltre mi tradiva continuamente. Lo lasciai una prima volta nel 2009, poi i parenti in qualche modo mi convinsero a riavvicinarmi. Ovviamente loro non erano consapevoli di quello che succedeva in casa nostra, anche perché lui era bravo a fingere di essere in tutt’altro modo di fronte agli altri. Ma ho deciso di dire basta per sempre nel periodo in cui mi disse che avrebbe lasciato il suo lavoro perché “doveva sistemarmi”. E lo fece sul serio. Lasciò il lavoro e rimase a casa con me e con i miei figli. Davanti ai bambini succedevano cose inaccettabili, ogni sera minacce e botte, fino a che è addirittura arrivato a picchiarmi mentre tenevo mio figlio in braccio. Lo denunciai, e lui venne a minacciarmi di morte. Fortunatamente all’epoca in Italia era appena uscita una legge (dl 93 del 14 agosto 2013, divenuto legge il 15 ottobre dello stesso anno) che permetteva a polizia e carabinieri di prendere la decisione di cacciare da casa il coniuge violento, mentre prima del 2013 la stessa decisione doveva passare attraverso le mani di un giudice. Il che significa che se una donna avesse denunciato maltrattamenti da parte del coniuge, prima che la pratica fosse arrivata in tribunale e che il giudice avesse preso una decisione la donna sarebbe stata costretta a restare a casa in attesa della sentenza…sotto lo stesso tetto del coniuge violento. Ebbi fortuna, ma non era comunque finita per me e per i miei figli. Da quel momento cominciò lo stalking. Lui mi seguiva, mi minacciava, fino a che un giorno ebbe un incidente dal quale si salvò per miracolo. Fu ricoverato per molti mesi e alla fine spostò le sue mire su altre donne, che poi lo hanno cacciato a loro volta. Non si è mai interessato dei figli, né di quelli avuti con me né di quelli avuti con un’altra compagna.

Come è riuscita a rimettere insieme i pezzi della sua vita?

Raffaella

“Quelli come lui non sono certo il genere di persona che provvede agli alimenti. Per ripartire dovevo prima di tutto pensare ai miei figli. Inizialmente la mia famiglia d’origine, che è molto solida, mi ha aiutato. Poi ho iniziato a fare svariati lavori. Amavo l’arte e avevo anche ricevuto una formazione in tal senso, ma quelli che riuscivo a trovare erano tutti lavoretti precari, con la ceramica e la pittura ecc. Racimolavo poco, fino a che un giorno il mio pollice – tutt’altro che verde – è riuscito a far morire persino una pianta grassa. “Possibile che non riesca a mantenere in vita neanche una pianta grassa?” mi dissi. Allora – era il 2016 – pensai di creare qualcosa capace di mantenere intatta la propria bellezza senza avere bisogno di cure. Pensai al fico d’india, una pianta tipica della mia terra, realizzata con materiali di recupero in forma artistica. Poi lo misi in un bel vaso usando un po’ di fantasia e di creatività. Dovete sapere che non solo nel mio paese, a Grottaglie, ma in tutta la Puglia la pianta in vaso di terracotta si chiama “Crasta”. Realizzai alcuni prototipi per gli amici e subito si avviò un tam tam tra i loro conoscenti. Insomma, prese il via un’inattesa escalation di successo. Nel 2019 ho aperto un’azienda con partita Iva tutta mia, che mi permette di mantenere me stessa e i miei figli in maniera dignitosa, anche grazie al passaparola sui social network, che è stato incredibile.”

Come si vede dalla sua pagina Instagram, molti personaggi del mondo dello spettacolo hanno voluto una “Crasta” per sé, giusto?

Beppe Fiorello con una Crasta

“Sono arrivata ad avere richieste da molti personaggi famosi, dai Negramaro a Daniele Silvestri, da Gianna Nannini a Vasco Rossi, da Gigi D’Alessio a Carboni, Dolcenera, Albano, Beppe Fiorello, Carboni ecc. Alcuni di loro me l’hanno proprio chiesta, altri l’hanno ricevuta attraverso gli organizzatori di eventi culturali, i quali mi chiedevano una Crasta con cui omaggiare i loro ospiti. Persino l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte ne ricevette una dalle mie mani”.

La sua è davvero una storia di rinascita. Cosa si sente di dire alle moltissime donne che ancora oggi subiscono violenza tra le mura domestiche?

“È una questione delicata e difficile. Io sono stata fortunata, ma non posso garantire alle donne vittime di violenza che andrà a finire tutto bene. Quello che sicuramente posso dire con certezza è che denunciare una persona violenta è possibile. Si devono superare la vergogna, il senso del fallimento, il giudizio della gente. Ma si può e si deve rinascere, come è capitato a me, anche semplicemente lasciando la persona violenta e denunciandola. Poi il resto viene da sé. Con impegno e fiducia, piano piano, la vita ti ripaga, ma bisogna crederci”.

Cosa secondo lei non va nel modo di trattare pubblicamente il problema da parte delle istituzioni?

Pino Insegno con la sua Crasta
Raffaella e Francesco Renga

“Si sente un gran parlare di violenza di genere ma alla fine dei conti c’è poca concretezza. Mi demoralizza per esempio il fatto che l’argomento venga demonizzato solo sulla carta, ma poi nel concreto sia un problema ancora lontano dalle emergenze che richiedono un intervento tempestivo, soprattutto nel Sud Italia dove la società è ancora profondamente patriarcale. Occorrono meno chiacchiere e immediati cambiamenti pratici. La giustizia è troppo lenta e i reati di violenza domestica fanno presto a cadere in prescrizione. Gli avvocati difensori poi sono bravi ad allungare i tempi dei processi ed ecco che la giustizia non funziona come dovrebbe, non esiste la certezza della pena. Ci sono troppe attenuanti, mentre nel caso della violenza di genere si parla di un reato che va stroncato sul nascere. Nessuna paternale, solo un’immediata azione di allontanamento del violento dall’ambiente familiare. Se si riuscisse a capire questo i numeri delle vittime sarebbero minori. La verità è che le donne hanno paura a sporgere denuncia perché poi subiscono ritorsioni da parte dei loro aguzzini. In teoria le cose sembra si stiano modificando, ma troppo lentamente. Alcuni provvedimenti che sono stati presi anche di recente sono imbarazzanti e il lavoro del legislatore andrà sicuramente ancora per le lunghe. Se il primo pensiero di una donna deve essere quello di salvaguardare i figli, per forza di cose non denuncerà mai la violenza subita, perché ha paura di non essere assistita. Tenete conto che adesso ci sono almeno i sussidi, al mio tempo neanche quelli. Se non fosse stato per la famiglia che avevo alle spalle non ce l’avrei fatta, e non è facile per una donna condannare i propri figli alla miseria. Le pene devono essere pesanti e immediate, altrimenti le persone violente tendono a cavarsela con pene minime o addirittura nulle, certi non fanno neanche un giorno di carcere. A queste condizioni la persona violenta viene incentivata a farlo ancora e ancora”.

Qual è il suo appello verso le donne che si trovano a vivere in questo momento la stessa situazione che ha vissuto lei?

“Non arrendetevi, abbiate coraggio, continuate a sperare e rinascerete. Spesso porto la mia testimonianza ad incontri e conferenze organizzati sia dal pubblico che dal privato. L’intento è proprio quello di spronare il sistema a proteggere le donne che denunciano. Perché spetta alla giustizia offrirci protezione, non alle associazioni private. Spetta alla giustizia prendersi cura di una donna psicologicamente e fisicamente provata, indebolita dalla situazione che si trova a vivere tra le mura familiari, immobilizzata dalla paura per la propria incolumità e per quella dei suoi figli”.

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“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

#lucenews #lucelanazione #millepare #alessialanza #podcast
  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
  • "Ora dobbiamo fare di meno, per il futuro".

Torna anche quest’anno l
  • Per una detenuta come Joy – nigeriana di 34 anni, arrestata nel 2014 per possesso di droga – uscire dal carcere significherà dover imparare a badare a se stessa. Lei che è lontana da casa e dalla famiglia, lei che non ha nessuno ad aspettarla. In carcere ha fatto il suo percorso, ha imparato tanto, ha sofferto di più. Ma ha anche conosciuto persone importanti, detenute come lei che sono diventate delle amiche. 

Mon solo. Nella Cooperativa sociale Gomito a Gomito, per esempio, ha trovato una seconda famiglia, un ambiente lavorativo che le ha offerto “opportunità che, se fossi stata fuori dal carcere, non avrei mai avuto”, come quella di imparare un mestiere e partecipare ad un percorso di riabilitazione sociale e personale verso l’indipendenza, anche economica.

Enrica Morandi, vice presidente e coordinatrice dei laboratori sartoriali del carcere di Rocco D’Amato (meglio noto ai bolognesi come “La Dozza”), si riferisce a lei chiamandola “la mia Joy”, perché dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco ha imparato ad apprezzare questa giovane donna impegnata a ricostruire la propria vita: 

“Joy è extracomunitaria, nel nostro Paese non ha famiglia. Per lei sarà impossibile beneficiare degli sconti di pena su cui normalmente possono contare le detenute italiane, per buona condotta o per anni di reclusione maturati. Non è una questione di razzismo, è che esistono problemi logistici veri e propri, come il non sapere dove sistemare e a chi affidare queste ragazze, una volta lasciate le mura del penitenziario. Se una donna italiana ha ad attenderla qualcuno che si fa carico di ospitarla, Joy e altre come lei non hanno nessun cordone affettivo cui appigliarsi”.

L
Lei ha un cuore generoso e una grande creatività nella testa. E sono state proprio queste due doti a salvarla, a permetterle di risollevarsi e ricostruirsi un futuro, dopo aver attraversato l’inferno. Raffaella, originaria di Grottaglie, in Puglia, è una vittima di violenza domestica. A Luce! racconta la sua storia, che non è fatta solo di botte e minacce psicologiche, ma soprattutto di coraggio, forza d’animo e resilienza. E da giovane donna sconosciuta della provincia di Taranto si trasforma in un esempio per tante, un’eroina del nostro tempo che non ha paura di rivivere una, due, cento volte la propria storia pubblicamente, pur di evitare ad altre la stessa sorte. E denuncia l’inadeguatezza di un sistema che “chiacchiera tanto ma agisce poco” per la tutela delle vittime.
Raffaella e le sue Craste
“La giustizia è troppo lenta e i reati di genere fanno presto a cadere in prescrizione. A queste condizioni la persona violenta viene incentivata a farlo ancora e ancora”. Eppure lei ce l’ha fatta a liberarsi del suo aguzzino e rinascere, riprendendo in mano le doti artistiche che aveva dovuto chiudere in un cassetto perché suo marito non le permetteva di esprimerle. Ha creato un’opera d’arte che sta diventando famosa in Italia, la “Crasta” che –ci spiega– in Puglia significa semplicemente pianta in vaso. E boom! Dal 2016 ad oggi tutti pazzi per le Craste di Raffaella, vip compresi che affollano la pagina Instagram “Craste.Puglia” con primi piani insieme alle loro piante artistiche. Così Raffaella, alla fine, è riuscita a realizzare il suo grande sogno, mantenere se stessa e i suoi figli facendo qualcosa che ama: arte.
Raffaella è stata vittima di violenza domestica. Poi ha denunciato il suo aguzzino e si è rifatta una via con la sua arte
Raffaella, quando ha iniziato ad emergere la natura violenta del suo ex marito? "Subito dopo il matrimonio. Fino a quel momento era stato bravo a nascondere la sua indole. Con me e con la mia famiglia si era dimostrato disponibile, affabile, simpatico. Nulla lasciava presagire ciò che poi sarebbe successo. Però quando ci siamo sposati ha iniziato a manifestare un carattere possessivo e geloso, maniaco del controllo. Voleva che il suo pensiero predominasse, dalle piccole cose alle più importanti. Ed è stato un crescendo continuo. Ha iniziato ad alzare la voce, poi è passato alle botte. In seguito ho scoperto che non era la prima volta". Quale è stata la sua reazione? "All’inizio, d’istinto mi sono ribellata, ho cercato di farlo ragionare, di fargli capire che quel genere di atteggiamento non andava bene. Era sospettoso, iracondo. Alle sue crisi seguivano le liti, ma quanto più cercavo di ribellarmi a quel suo a atteggiamento tanto più in lui scattava l’ira. A quel tempo avevo un bambino piccolo, non volevo litigare davanti a lui, inoltre mi vergognavo del fatto che i vicini sentissero. Alla fine, per difendere il bambino, sono diventata passiva. Avevo imparato che ogni sua crisi sfociava comunque in una violenza nei miei confronti e che se accettavo di subirla senza protestare tutto sarebbe finito prima. Quel genere di persona segue schemi precisi e sempre uguali: l’accesso d’ira gli serve per sfogare una rabbia che gli è andata caricando dentro, fondamentalmente a causa di sciocchezze, e niente e nessuno può fermarlo o interrompere quel processo. Avevo imparato a non istigarlo, perché sapevo che sarebbe finita peggio. Lasciavo che terminasse quel che doveva fare, su di me, perché tanto mi avrebbe picchiata comunque. Era come vivere all’interno di un circolo vizioso. Ricordo che lui si caricava di rabbia per qualsiasi cosa, spesso mi ha picchiato per stupidate immense. Poi il giorno dopo si presentava da me con un regalo. Il modus operandi era sempre questo, che poi è lo stesso di tutti quelli che utilizzano la violenza come mezzo di supremazia".
Raffaella e le Craste, piante in vaso nel dialetto pugliese
Quando e come ha trovato il coraggio di cacciarlo dalla sua vita? "Non ho deciso di colpo. Per tre anni ho cercato una pseudo soluzione che potesse arrecare il male minore a me e ai miei due figli. Fortunatamente lui stava spesso fuori per lavoro, ma nelle settimane in cui era presente vivevo l’inferno. Inoltre mi tradiva continuamente. Lo lasciai una prima volta nel 2009, poi i parenti in qualche modo mi convinsero a riavvicinarmi. Ovviamente loro non erano consapevoli di quello che succedeva in casa nostra, anche perché lui era bravo a fingere di essere in tutt’altro modo di fronte agli altri. Ma ho deciso di dire basta per sempre nel periodo in cui mi disse che avrebbe lasciato il suo lavoro perché “doveva sistemarmi”. E lo fece sul serio. Lasciò il lavoro e rimase a casa con me e con i miei figli. Davanti ai bambini succedevano cose inaccettabili, ogni sera minacce e botte, fino a che è addirittura arrivato a picchiarmi mentre tenevo mio figlio in braccio. Lo denunciai, e lui venne a minacciarmi di morte. Fortunatamente all’epoca in Italia era appena uscita una legge (dl 93 del 14 agosto 2013, divenuto legge il 15 ottobre dello stesso anno) che permetteva a polizia e carabinieri di prendere la decisione di cacciare da casa il coniuge violento, mentre prima del 2013 la stessa decisione doveva passare attraverso le mani di un giudice. Il che significa che se una donna avesse denunciato maltrattamenti da parte del coniuge, prima che la pratica fosse arrivata in tribunale e che il giudice avesse preso una decisione la donna sarebbe stata costretta a restare a casa in attesa della sentenza...sotto lo stesso tetto del coniuge violento. Ebbi fortuna, ma non era comunque finita per me e per i miei figli. Da quel momento cominciò lo stalking. Lui mi seguiva, mi minacciava, fino a che un giorno ebbe un incidente dal quale si salvò per miracolo. Fu ricoverato per molti mesi e alla fine spostò le sue mire su altre donne, che poi lo hanno cacciato a loro volta. Non si è mai interessato dei figli, né di quelli avuti con me né di quelli avuti con un’altra compagna. Come è riuscita a rimettere insieme i pezzi della sua vita?
Raffaella
"Quelli come lui non sono certo il genere di persona che provvede agli alimenti. Per ripartire dovevo prima di tutto pensare ai miei figli. Inizialmente la mia famiglia d’origine, che è molto solida, mi ha aiutato. Poi ho iniziato a fare svariati lavori. Amavo l’arte e avevo anche ricevuto una formazione in tal senso, ma quelli che riuscivo a trovare erano tutti lavoretti precari, con la ceramica e la pittura ecc. Racimolavo poco, fino a che un giorno il mio pollice – tutt’altro che verde – è riuscito a far morire persino una pianta grassa. “Possibile che non riesca a mantenere in vita neanche una pianta grassa?” mi dissi. Allora – era il 2016 – pensai di creare qualcosa capace di mantenere intatta la propria bellezza senza avere bisogno di cure. Pensai al fico d’india, una pianta tipica della mia terra, realizzata con materiali di recupero in forma artistica. Poi lo misi in un bel vaso usando un po’ di fantasia e di creatività. Dovete sapere che non solo nel mio paese, a Grottaglie, ma in tutta la Puglia la pianta in vaso di terracotta si chiama “Crasta”. Realizzai alcuni prototipi per gli amici e subito si avviò un tam tam tra i loro conoscenti. Insomma, prese il via un’inattesa escalation di successo. Nel 2019 ho aperto un’azienda con partita Iva tutta mia, che mi permette di mantenere me stessa e i miei figli in maniera dignitosa, anche grazie al passaparola sui social network, che è stato incredibile." Come si vede dalla sua pagina Instagram, molti personaggi del mondo dello spettacolo hanno voluto una “Crasta” per sé, giusto?
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"Sono arrivata ad avere richieste da molti personaggi famosi, dai Negramaro a Daniele Silvestri, da Gianna Nannini a Vasco Rossi, da Gigi D’Alessio a Carboni, Dolcenera, Albano, Beppe Fiorello, Carboni ecc. Alcuni di loro me l’hanno proprio chiesta, altri l’hanno ricevuta attraverso gli organizzatori di eventi culturali, i quali mi chiedevano una Crasta con cui omaggiare i loro ospiti. Persino l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte ne ricevette una dalle mie mani". La sua è davvero una storia di rinascita. Cosa si sente di dire alle moltissime donne che ancora oggi subiscono violenza tra le mura domestiche? "È una questione delicata e difficile. Io sono stata fortunata, ma non posso garantire alle donne vittime di violenza che andrà a finire tutto bene. Quello che sicuramente posso dire con certezza è che denunciare una persona violenta è possibile. Si devono superare la vergogna, il senso del fallimento, il giudizio della gente. Ma si può e si deve rinascere, come è capitato a me, anche semplicemente lasciando la persona violenta e denunciandola. Poi il resto viene da sé. Con impegno e fiducia, piano piano, la vita ti ripaga, ma bisogna crederci". Cosa secondo lei non va nel modo di trattare pubblicamente il problema da parte delle istituzioni?
Pino Insegno con la sua Crasta
Raffaella e Francesco Renga
"Si sente un gran parlare di violenza di genere ma alla fine dei conti c’è poca concretezza. Mi demoralizza per esempio il fatto che l’argomento venga demonizzato solo sulla carta, ma poi nel concreto sia un problema ancora lontano dalle emergenze che richiedono un intervento tempestivo, soprattutto nel Sud Italia dove la società è ancora profondamente patriarcale. Occorrono meno chiacchiere e immediati cambiamenti pratici. La giustizia è troppo lenta e i reati di violenza domestica fanno presto a cadere in prescrizione. Gli avvocati difensori poi sono bravi ad allungare i tempi dei processi ed ecco che la giustizia non funziona come dovrebbe, non esiste la certezza della pena. Ci sono troppe attenuanti, mentre nel caso della violenza di genere si parla di un reato che va stroncato sul nascere. Nessuna paternale, solo un’immediata azione di allontanamento del violento dall’ambiente familiare. Se si riuscisse a capire questo i numeri delle vittime sarebbero minori. La verità è che le donne hanno paura a sporgere denuncia perché poi subiscono ritorsioni da parte dei loro aguzzini. In teoria le cose sembra si stiano modificando, ma troppo lentamente. Alcuni provvedimenti che sono stati presi anche di recente sono imbarazzanti e il lavoro del legislatore andrà sicuramente ancora per le lunghe. Se il primo pensiero di una donna deve essere quello di salvaguardare i figli, per forza di cose non denuncerà mai la violenza subita, perché ha paura di non essere assistita. Tenete conto che adesso ci sono almeno i sussidi, al mio tempo neanche quelli. Se non fosse stato per la famiglia che avevo alle spalle non ce l’avrei fatta, e non è facile per una donna condannare i propri figli alla miseria. Le pene devono essere pesanti e immediate, altrimenti le persone violente tendono a cavarsela con pene minime o addirittura nulle, certi non fanno neanche un giorno di carcere. A queste condizioni la persona violenta viene incentivata a farlo ancora e ancora". Qual è il suo appello verso le donne che si trovano a vivere in questo momento la stessa situazione che ha vissuto lei? "Non arrendetevi, abbiate coraggio, continuate a sperare e rinascerete. Spesso porto la mia testimonianza ad incontri e conferenze organizzati sia dal pubblico che dal privato. L’intento è proprio quello di spronare il sistema a proteggere le donne che denunciano. Perché spetta alla giustizia offrirci protezione, non alle associazioni private. Spetta alla giustizia prendersi cura di una donna psicologicamente e fisicamente provata, indebolita dalla situazione che si trova a vivere tra le mura familiari, immobilizzata dalla paura per la propria incolumità e per quella dei suoi figli".
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