Rischiare la vita per amore della verità. Accade tutti i giorni ai reporter di guerra che con le loro parole, le loro immagini e con le loro riprese cercano di raccontare con dovizia di particolari i fatti che accadono nei fronti caldi del mondo.
Non si fermano di fronte alle stragi né ai bombardamenti: il loro unico obiettivo è tenere gli occhi aperti per riportare fedelmente quello che accade. E proprio questa costante ricerca della notizia, della verità è costata cara al reporter palestinese Sami Shehada, che ha perso gran parte della gamba destra, amputatagli dopo che le schegge di una bomba israeliana lo hanno ferito gravemente mentre seguiva la guerra a Nuseirat, nella Striscia.
“Voglio tornare a fare la cosa che amo: riprendere”
Appena possibile però, ha scelto di tornare con la sua telecamera proprio sul luogo dove ha rischiato di perdere la vita: “Ho usato questa telecamera per diciassette anni. Ho filmato di tutto. Trascorrere un mese senza tenerla più in mano... non ce la facevo proprio”, racconta in un video sui social in cui ripercorre la sua storia, che ha fatto il giro del mondo ed è stato ripreso anche dai media italiani.
“Sono venuto qui per tornare alla mia vita, a quello che facevo prima, alla cosa che amo: riprendere. Quando sono stato ferito, la prima cosa che ho chiesto è stata la mia videocamera, perché la considero parte di me!”, dichiara il giornalista palestinese.
Il ferimento e la degenza in ospedale
Shehada è rimasto ferito lo scorso 12 aprile mentre stava lavorando sul campo per la tv turca Trt Arabi con il corrispondente Sami Barhoum, anche lui colpito dalle schegge della bomba ma in maniera lieve. Per sopportare la sofferenza in ospedale si è posto un obiettivo ben preciso: riprendere a lavorare con la videocamera in mano e con la stampella dall'altra. "Mi annoiavo. Potevo stare solo a letto, allettato per un mese in attesa di andarmene: ma hanno chiuso il passaggio di frontiera – aggiunge –. Per quanto tempo potevo ancora stare seduto senza tenere in mano una camera e lavorare? Quindi no. Sono venuto qui per lavorare, anche se con le stampelle”, prosegue l’inviato di guerra.
Lui è sopravvissuto e ha scelto di riprendere in mano quello che aveva lasciato in sospeso, nonostante i dati dimostrino quanto ferite come le sue, in contesti come quello del conflitto in Medio Oriente ma non solo, garantiscano poche possibilità di uscire incolumi. Secondo quelli forniti dall'Associazione per la protezione dei giornalisti (CPJ), almeno 95 giornalisti e operatori media sono stati uccisi nel conflitto dal 7 ottobre 2023 a metà aprile di quest'anno. Tra le vittime ci sono 90 giornalisti palestinesi, 2 israeliani e 3 libanesi. Non si è accontentato di una vita ‘facile’ da reduce, ha capito che il suo dovere di reporter non era ancora concluso.
La seconda vita di Sami Shehada
Sami non ha paura. Vuole tornare alla sua vita anche per lasciarsi tutto alle spalle. "Ho deciso di non indossare più il mio giubbotto antiproiettile, perché non mi ha protetto quando sono rimasto ferito. In teoria certifica che sono un giornalista. Si sapeva che ero un giornalista. Era chiaramente visibile, ma sono rimasto ferito. Mi hanno amputato la gamba e il giubbotto non mi ha protetto. Quindi ho deciso di non indossarlo più”, conclude il reporter.