Elogio delle “soft girls”: dalla Svezia la moda che mette a rischio l’emancipazione

Sempre più giovani svedesi scelgono la vita domestica come antidoto allo stress, rischiando di mettere in discussione decenni di lotte per la parità di genere. Una scelta di libertà o un ritorno a vecchi stereotipi?

di MARGHERITA AMBROGETTI DAMIANI
8 gennaio 2025
Lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura della casa: la moda delle "soft girls"

Lasciare il lavoro per dedicarsi alla cura della casa: la moda delle "soft girls"

Se, pensando alla parità di genere, vi vengono in mente immagini di Paesi nordici, con la Svezia al primo posto, è ora di rivedere il quadro. Da Stoccolma e dintorni arrivano notizie tutt'altro che rassicuranti. Tra le giovani e giovanissime, infatti, sta emergendo con forza il mito delle “soft girls”: donne che scelgono di dedicarsi esclusivamente alla cura della casa, lasciando al partner il compito di provvedere ai soldi. A trainare questa tendenza preoccupante sono, neanche a dirlo, i social network, che tra hashtag in tendenza e influencer senza compenso amplificano il fenomeno. Emblematica è la storia di Vilma Larsson, una venticinquenne che ha lasciato il lavoro per dedicarsi a cucina e bucato.

Liquidare il fenomeno come una moda passeggera sarebbe superficiale. Quello delle “soft girls” ha tutta l’aria di essere un movimento destinato a durare, visto che le sue sostenitrici lo promuovono come alternativa alla vita stressante delle “boss girl” – il modello di donna emancipata e autonoma che la Svezia ha costruito con decenni di politiche a sostegno delle famiglie con doppio reddito. Secondo recenti dati, il 14% delle studentesse svedesi tra i 7 e i 14 anni aspira a diventare una “soft girl”, rinunciando a sogni di carriera e realizzazione personale. Una tendenza che va letta nel contesto di un più ampio cambiamento sociale che coinvolge i giovani svedesi e non solo. Anche in Svezia, infatti, lo stress ha raggiunto livelli critici, spingendo molti della Gen Z a cercare vie di fuga. Ne sono esempi il “quiet quitting”, che celebra il tempo libero a scapito dell’impegno lavorativo, o l’adozione di filosofie di vita più lente e minimaliste.

Un vero ribaltamento culturale rispetto al paradigma che ha dominato le generazioni precedenti. Il cuore della faccenda, però, riguarda la questione di genere: se la scelta di una vita slow rischia di compromettere i risultati ottenuti dalle donne in termini di emancipazione, è corretto considerarla una libertà legittima? Si tratta di un dilemma complesso: da un lato, si invoca il diritto alla libertà di scelta; dall’altro, si teme un passo indietro per le conquiste di intere generazioni. Di certo, è significativo che siano i giovani a difendere questa nuova filosofia di vita, forse perché non hanno vissuto in prima persona le lotte per i diritti delle donne. Tuttavia, mettere al primo posto il benessere individuale è una necessità ormai irrimandabile. Forse, la vera soluzione sta in una conciliazione più umana tra vita e lavoro, che consenta a tutti – uomini e donne – di non vivere per lavorare, ma lavorare per vivere.

Una società capace di sostenere le persone, anziché considerarle semplici strumenti del consumismo, potrebbe rappresentare la chiave per un equilibrio nuovo. Certo, è una sfida epocale, ma il momento di affrontarla è adesso, per prevenire l’ennesimo stravolgimento sociale lasciato al caso.