Se, pensando alla parità di genere, vi vengono in mente immagini di Paesi nordici, con la Svezia al primo posto, è ora di rivedere il quadro. Da Stoccolma e dintorni arrivano notizie tutt'altro che rassicuranti. Tra le giovani e giovanissime, infatti, sta emergendo con forza il mito delle “soft girls”: donne che scelgono di dedicarsi esclusivamente alla cura della casa, lasciando al partner il compito di provvedere ai soldi. A trainare questa tendenza preoccupante sono, neanche a dirlo, i social network, che tra hashtag in tendenza e influencer senza compenso amplificano il fenomeno. Emblematica è la storia di Vilma Larsson, una venticinquenne che ha lasciato il lavoro per dedicarsi a cucina e bucato.
Liquidare il fenomeno come una moda passeggera sarebbe superficiale. Quello delle “soft girls” ha tutta l’aria di essere un movimento destinato a durare, visto che le sue sostenitrici lo promuovono come alternativa alla vita stressante delle “boss girl” – il modello di donna emancipata e autonoma che la Svezia ha costruito con decenni di politiche a sostegno delle famiglie con doppio reddito. Secondo recenti dati, il 14% delle studentesse svedesi tra i 7 e i 14 anni aspira a diventare una “soft girl”, rinunciando a sogni di carriera e realizzazione personale. Una tendenza che va letta nel contesto di un più ampio cambiamento sociale che coinvolge i giovani svedesi e non solo. Anche in Svezia, infatti, lo stress ha raggiunto livelli critici, spingendo molti della Gen Z a cercare vie di fuga. Ne sono esempi il “quiet quitting”, che celebra il tempo libero a scapito dell’impegno lavorativo, o l’adozione di filosofie di vita più lente e minimaliste.
Un vero ribaltamento culturale rispetto al paradigma che ha dominato le generazioni precedenti. Il cuore della faccenda, però, riguarda la questione di genere: se la scelta di una vita slow rischia di compromettere i risultati ottenuti dalle donne in termini di emancipazione, è corretto considerarla una libertà legittima? Si tratta di un dilemma complesso: da un lato, si invoca il diritto alla libertà di scelta; dall’altro, si teme un passo indietro per le conquiste di intere generazioni. Di certo, è significativo che siano i giovani a difendere questa nuova filosofia di vita, forse perché non hanno vissuto in prima persona le lotte per i diritti delle donne. Tuttavia, mettere al primo posto il benessere individuale è una necessità ormai irrimandabile. Forse, la vera soluzione sta in una conciliazione più umana tra vita e lavoro, che consenta a tutti – uomini e donne – di non vivere per lavorare, ma lavorare per vivere.
Una società capace di sostenere le persone, anziché considerarle semplici strumenti del consumismo, potrebbe rappresentare la chiave per un equilibrio nuovo. Certo, è una sfida epocale, ma il momento di affrontarla è adesso, per prevenire l’ennesimo stravolgimento sociale lasciato al caso.