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Home » Attualità » Spagna, il libro sulla guerra civile che racconta la storia nascosta delle giornaliste al fronte

Spagna, il libro sulla guerra civile che racconta la storia nascosta delle giornaliste al fronte

"Extranjeras en la Guerra Civil" rivela i segreti delle reporter impegnate in guerra, che provenivano da tutto il mondo e provavano a scongiurare la vittoria del fascismo

Edoardo Martini
27 Agosto 2022
Guerra civile spagnola

Guerra civile spagnola

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Cosa sappiamo delle giornaliste che hanno lavorato durante la guerra civile spagnola? Poco, forse niente, fino a quando Bernardo Díaz Nosty, professore di giornalismo all’Università di Malaga, non ha scritto un libro intitolato “Extranjeras en la Guerra Civil“, che racconta la storia di 183 donne provenienti da 29 paesi diversi che spiegano, dal loro punto di vista, proprio la guerra, dandone una nuova visione, distinta dai racconti maschili e bellicosi della vita da soldati.

Bernardo Díaz Nosty, professore di giornalismo all’Università di Malaga

La guerra che colpiva i civili piuttosto che i soldati

La guerra civile spagnola è stata la prima ad assistere al bombardamento aereo indiscriminato di civili piuttosto che dei soldati. “La morte non avveniva soltanto in prima linea, ma anche nelle retrovie, dove venivano colpiti gli indifesi la cui protezione e sopravvivenza dipendeva principalmente dalle donne. C’era un eroismo silenzioso nella sofferenza degli anziani, delle donne e dei bambini, che non appariva nei rapporti dal fronte. Anche quando le donne sono andate sul campo da combattimento, hanno raccontato i fatti usando un punto di vista più umano rispetto a come realmente stavano soffrendo tutti”, racconta il professore.

Secondo Nosty, la giornalista francese Hélène Gosset, ha rivelato che le donne erano pacifiste per natura e che i bambini che morivano ogni giorno nei bombardamenti venivano ‘sacrificati per la follia degli uomini’. Mentre le donne provenivano da tutto il mondo, come il Canada e il Perù, le più numerose provenivano dalla Gran Bretagna (40) e dagli Stati Uniti (35), seguite dalla Francia (24) e dalla Germania (13). “Molte delle donne erano ebree, altre erano del partito comunista, tra cui esule tedesche e italiane che vivevano a Parigi e Londra e che si erano unite alla guerra in difesa della democrazia e contro il razzismo“, continua il professore. Fu il caso di Gerda Taro, una ricca ebrea polacca costretta a fuggire in Spagna dalla Germania nazista come fotografa insieme al suo compagno, Endre Ernö Friedmann. Gerda morì in un incidente nel 1937, investita da un carro armato repubblicano durante la battaglia di Brunete. Un’altra fu Ilse Wolff, un’ebrea austriaca che, dopo aver coperto la guerra, si è recata a Londra dove ha condotto trasmissioni antinaziste per la BBC.

Gerda Taro, la fotografa costretta a fuggire in Spagna dalla Germania nazista

“Erano donne irrequiete che volevano rompere le convenzioni”

“Una percentuale molto alta delle donne che hanno partecipato alla guerra avevano un’istruzione universitaria e provenivano dalle classi sociali superiori. Erano donne irrequiete che volevano rompere le convenzioni”, prosegue il professore. Tra le molti giornaliste inglesi c’era Josie Shercliff, che scrisse per il Daily Herald sotto il nome di José Shercliff. La giornalista ha poi continuato come corrispondente del Times a Lisbona, dove forse ha anche lavorato come spia. Kate Mangan, invece, artista e attrice, è entrata a far parte delle Brigate Internazionali, ma è finita nell’ufficio stampa repubblicano di Valencia.
Negli anni ’30, le donne godettero di un momento di maggiore libertà e vedevano chiaramente che ciò che dovevano evitare era che il fascismo prevalesse. “Sono state loro a mettere in guardia tutti che se il fascismo non fosse stato sconfitto in Spagna, avrebbe potuto provocare una guerra europea”, conclude Nosty.
Non sorprende che oltre il 90% delle giornaliste operasse in zone repubblicane, le quali erano più accessibili ai media ed avevano opinioni più moderne sul ruolo delle donne. Tuttavia, alcune giornaliste seguirono la linea franchista secondo cui la guerra veniva gestita da Mosca. Gertrude Gaffney, per esempio, che scrisse per l’Irish Independent, ha visto Franco come l’antidoto alla missione empia del comunismo.

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  • Numerosi attori e musicisti di alto profilo si sono recati in Ucraina da quando è scoppiata la guerra con la Russia nel febbraio 2022. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’attore britannico Orlando Bloom, che ieri ha visitato un centro per bambini e ha incontrato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev.

“Non mi sarei mai aspettato che la guerra si sarebbe intensificata in tutto il Paese da quando sono stato lì”, ha detto Bloom su Instagram, “Ma oggi ho avuto la fortuna di ascoltare le risate dei bambini in un centro del programma Spilno sostenuto dall’Unicef, uno spazio sicuro, caldo e accogliente dove i bambini possono giocare, imparare e ricevere supporto psicosociale”.

Bloom è un ambasciatore di buona volontà per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef). Il centro di Splino, che è uno dei tanti in Ucraina, offre sostegno ai bambini sfollati e alle loro famiglie, con più di mezzo milione di bambini che ne hanno visitato uno nell’ultimo anno.

La star hollywoodiana ha poi incontrato il presidente Zelensky, con cui ha trattato temi tra cui il ritorno dei bambini ucraini deportati in Russia, la creazione di rifugi antiatomici negli istituti scolastici e il supporto tecnico per l’apprendimento a distanza nelle aree in cui è impossibile studiare offline a causa della guerra. L’attore britannico aveva scritto ieri su Instagram, al suo arrivo a Kiev, che i «bambini in Ucraina hanno bisogno di riavere la loro infanzia».

#lucelanazione #lucenews #zelensky #orlandobloom
  • “La vita che stavo conducendo mi rendeva particolarmente infelice e se all’inizio ero entrata in terapia perché volevo accettare il fatto che mi dovessi nascondere, ho avuto poi un’evoluzione e questo percorso è diventato di accettazione di me stessa."

✨Un sorriso contagioso, la spensieratezza dei vent’anni e la bellezza di chi si piace e non può che riflettere quella luce anche al di fuori. La si potrebbe definire una Mulan nostrana Carlotta Bertotti, 23 anni, una ragazza torinese come tante, salvo che ha qualcosa di speciale. E non stiamo parlano del Nevo di Ota che occupa metà del suo volto. Ecco però spiegato un primo punto di contatto con Mulan: l’Oriente, dove è più diffusa (insieme all’Africa) quell’alterazione di natura benigna della pigmentazione della cute intorno alla zona degli occhi (spesso anche la sclera si presenta scura). Quella che appare come una chiazza grigio-bluastra su un lato del volto (rarissimi i casi bilaterali), colpisce prevalentemente persone di sesso femminile e le etnie asiatiche (1 su 200 persone in Giappone), può essere presente alla nascita o apparire durante la pubertà. E come la principessa Disney “fin da piccola ho sempre sentito la pressione di dover salvare tutto, ma forse in realtà dovevo solo salvare me stessa. Però non mi piace stare troppo alle regole, sono ribelle come lei”.

🗣Cosa diresti a una ragazza che ha una macchia come la tua e ti chiede come riuscire a conviverci?�
“Che sono profondamente fiera della persona che vedo riflessa allo specchio tutto i giorni e sono arrivata a questa fierezza dopo che ho scoperto e ho accettato tutti i miei lati, sia positivi che negativi. È molto autoreferenziale, quindi invece se dovessi dare un consiglio è quello che alla fine della fiera il giudizio altrui è momentaneo e tutto passa. L’unica persona che resta e con cui devi convivere tutta la vita sei tu, quindi le vere battaglie sono quelle con te stessa, quelle che vale la pena combattere”.

L’intervista a cura di Marianna Grazi �✍ 𝘓𝘪𝘯𝘬 𝘪𝘯 𝘣𝘪𝘰

#lucenews #lucelanazione #carlottabertotti #nevodiota
  • La salute mentale al centro del podcast di Alessia Lanza. Come si supera l’ansia sociale? Quanto è difficile fare coming out? Vado dallo psicologo? Come trovo la mia strada? La popolare influencer, una delle creator più note e amate del web con 1,4 milioni di followers su Instagram e 3,9 milioni su TikTok, Alessia Lanza debutta con “Mille Pare”, il suo primo podcast in cui affronta, in dieci puntate, una “para” diversa e cerca di esorcizzare le sue fragilità e, di riflesso, quelle dei suoi coetanei.

“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta. Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto ‘Anche io ho quella para lì!’. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.

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  • Si è laureata in Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali indossando un abito tradizionale Crow, tribù della sua famiglia adottiva in Montana. Eppure Raffaella Milandri è italianissima e ha conseguito il titolo nella storica università Alma Mater di Bologna, lo scorso 17 marzo. 

La scrittrice e giornalista nel 2010 è diventata membro adottivo della famiglia di nativi americani Black Eagle. Da quel momento quella che era una semplice passione per i popoli indigeni si è focalizzata sullo studio degli aborigeni Usa e sulla divulgazione della loro cultura.

Un titolo di studio specifico, quello conseguito dalla Milandri, “Che ho ritenuto oltremodo necessario per coronare la mia attività di studiosa e attivista per i diritti dei Nativi Americani e per i Popoli Indigeni. La prima forma pacifica di attivismo è divulgare la cultura nativa”. L’abito indossato durante cerimonia di laurea appartiene alla tribù della sua famiglia adottiva. Usanza che è stata istituzionalizzata solo dal 2017 in Montana, Stato d’origine del suo popolo, quando è stata approvata una legge (la SB 319) che permette ai nativi e loro familiari di laurearsi con il “tribal regalia“. 

In virtù di questa norma, il Segretario della Crow Nation, Levi Black Eagle, a maggio 2022 ha ricordato la possibilità di indossare l’abito tradizionale Crow in queste occasioni e così Milandri ha chiesto alla famiglia d’adozione se anche lei, in quanto membro acquisito della tribù, avrebbe potuto indossarlo in occasione della sua discussione.

La scrittrice, ricordando il momento della laurea a Bologna, racconta che è stata “Una grandissima emozione e un onore poter rappresentare la Crow Nation e la mia famiglia adottiva. Ho dedicato la mia laurea in primis alle vittime dei collegi indiani, istituti scolastici, perlopiù a gestione cattolica, di stampo assimilazionista. Le stesse vittime per le quali Papa Francesco, lo scorso luglio, si è recato in Canada in viaggio penitenziale a chiedere scusa  Ho molto approfondito questo tema controverso e presto sarà pubblicato un mio studio sull’argomento dalla Mauna Kea Edizioni”.

#lucenews #raffaellamilandri #antropologia
Cosa sappiamo delle giornaliste che hanno lavorato durante la guerra civile spagnola? Poco, forse niente, fino a quando Bernardo Díaz Nosty, professore di giornalismo all'Università di Malaga, non ha scritto un libro intitolato "Extranjeras en la Guerra Civil", che racconta la storia di 183 donne provenienti da 29 paesi diversi che spiegano, dal loro punto di vista, proprio la guerra, dandone una nuova visione, distinta dai racconti maschili e bellicosi della vita da soldati.
Bernardo Díaz Nosty, professore di giornalismo all'Università di Malaga

La guerra che colpiva i civili piuttosto che i soldati

La guerra civile spagnola è stata la prima ad assistere al bombardamento aereo indiscriminato di civili piuttosto che dei soldati. "La morte non avveniva soltanto in prima linea, ma anche nelle retrovie, dove venivano colpiti gli indifesi la cui protezione e sopravvivenza dipendeva principalmente dalle donne. C'era un eroismo silenzioso nella sofferenza degli anziani, delle donne e dei bambini, che non appariva nei rapporti dal fronte. Anche quando le donne sono andate sul campo da combattimento, hanno raccontato i fatti usando un punto di vista più umano rispetto a come realmente stavano soffrendo tutti", racconta il professore.

Secondo Nosty, la giornalista francese Hélène Gosset, ha rivelato che le donne erano pacifiste per natura e che i bambini che morivano ogni giorno nei bombardamenti venivano 'sacrificati per la follia degli uomini'. Mentre le donne provenivano da tutto il mondo, come il Canada e il Perù, le più numerose provenivano dalla Gran Bretagna (40) e dagli Stati Uniti (35), seguite dalla Francia (24) e dalla Germania (13). "Molte delle donne erano ebree, altre erano del partito comunista, tra cui esule tedesche e italiane che vivevano a Parigi e Londra e che si erano unite alla guerra in difesa della democrazia e contro il razzismo", continua il professore. Fu il caso di Gerda Taro, una ricca ebrea polacca costretta a fuggire in Spagna dalla Germania nazista come fotografa insieme al suo compagno, Endre Ernö Friedmann. Gerda morì in un incidente nel 1937, investita da un carro armato repubblicano durante la battaglia di Brunete. Un'altra fu Ilse Wolff, un'ebrea austriaca che, dopo aver coperto la guerra, si è recata a Londra dove ha condotto trasmissioni antinaziste per la BBC.

Gerda Taro, la fotografa costretta a fuggire in Spagna dalla Germania nazista

"Erano donne irrequiete che volevano rompere le convenzioni"

"Una percentuale molto alta delle donne che hanno partecipato alla guerra avevano un'istruzione universitaria e provenivano dalle classi sociali superiori. Erano donne irrequiete che volevano rompere le convenzioni", prosegue il professore. Tra le molti giornaliste inglesi c'era Josie Shercliff, che scrisse per il Daily Herald sotto il nome di José Shercliff. La giornalista ha poi continuato come corrispondente del Times a Lisbona, dove forse ha anche lavorato come spia. Kate Mangan, invece, artista e attrice, è entrata a far parte delle Brigate Internazionali, ma è finita nell'ufficio stampa repubblicano di Valencia. Negli anni '30, le donne godettero di un momento di maggiore libertà e vedevano chiaramente che ciò che dovevano evitare era che il fascismo prevalesse. "Sono state loro a mettere in guardia tutti che se il fascismo non fosse stato sconfitto in Spagna, avrebbe potuto provocare una guerra europea", conclude Nosty. Non sorprende che oltre il 90% delle giornaliste operasse in zone repubblicane, le quali erano più accessibili ai media ed avevano opinioni più moderne sul ruolo delle donne. Tuttavia, alcune giornaliste seguirono la linea franchista secondo cui la guerra veniva gestita da Mosca. Gertrude Gaffney, per esempio, che scrisse per l'Irish Independent, ha visto Franco come l'antidoto alla missione empia del comunismo.

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