Colpa e
consenso. Due parole che, quando si parla di
violenza di genere, non vengono quasi mai prese in considerazione e quando succede, generalmente lo si fa in modo sbagliato. Ovvero attribuendo la "colpa" di essere stata stuprata,
molestata, perfino uccisa, a chi è vittima di quella violenza. Non si parla di lei nelle leggi, ma dell'
autore di quei reati. E al consenso, nel Codice penale, non si fa riferimento. Quindi diventa facile, tremendamente facile, colpevolizzare la donna - nella maggioranza dei casi - che dei reati subisce le più terribili conseguenze. Perché la doppia negazione, dice una regola grammaticale, afferma: "Non ha detto no, quindi posso farne quello che voglio. La colpa è sua".
In Italia si parla "male" di violenza di genere
Filippo Facci su "Libero" ha scritto in un articolo: "Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa"
Dicendo che "
se l'era cercata" per come era vestita, per i suoi atteggiamenti "provocatori" o "lascivi", perché ubriaca o "fatta" di sostanze stupefacenti. E allora l'aggressore come poteva lasciarsi scappare una così ghiotta occasione? Anche perché a difendere lui e non chi denuncia c'è sempre un'ampia schiera di pubblico, ma anche di media. Un esempio? Le parole del giornalista Filippo Facci, che su
Libero in un articolo sul caso riguardante il figlio di Ignazio La Russa, accusato di abusato sessualmente di un'ex compagna di liceo quando lei era incosciente, ha scritto: "Una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa". Perché nel nostro Paese
non si sa parlare di questo fenomeno; se ne parla tanto, perché tanti sono i casi, ma male. Come se non riuscissimo a codificare una condanna vera di questo reato, confondendo i ruoli di chi è vittima e di chi è carnefice, di cosa voglia dire consenso, appunto.
Il caso Leonardo Apache La russa
"Da millenni il corpo delle donne è stato un teatro di guerra", spiega a L’Espresso la giudice della Corte di Cassazione
Paola Di Nicola Travaglini, specificando come la loro voce femminile sia ancora oggi silenziata nei codici e, di conseguenza, sui giornali, in televisione, online e così via. "Lo dimostra il
caso Grillo, di due anni fa. E nello stesso errore è caduto recentemente anche
Ignazio La Russa, presidente del Senato, per difendere il figlio accusato di violenza sessuale" ha scritto nell'articolo di fondo la direttrice di Quotidiano Nazionale Agnese Pini.
Leonardo Apache La Russa con il padre Ignazio
Perché nel comunicato diffuso da Palazzo Madama dopo la denuncia del "fattaccio" in cui è implicato Leonardo Apache, che sarebbe avvenuto in casa del presidente, lo scorso 18 maggio dopo una serata in discoteca, ma soprattutto dalle parole pronunciate dal padre, non emerge alcun accenno alla gravità dell’accusa, al
clima culturale paternalista e patriarcale in cui certe azioni si compiono.
La vittimizzazione secondaria
Anzi! "Dopo averlo a lungo interrogato ho la
certezza che mio figlio Leonardo non abbia compiuto alcun atto penalmente rilevante" dice l'esponente di Fratelli d'Italia. Che si arroga il diritto di "interrogare" il figlio al posto dei magistrati, e di scagionarlo, quando invece, per non intimidire e non fare pressioni visto il ruolo istituzionale, sarebbe stato opportuno rimanere in sacrosanto silenzio. "Mio figlio è innocente", sentenzia. Una frase di una gravità indicibile per chi ha subito lo stupro (presunto), perché presuppone una visione opposta della realtà dei fatti. E pensare che il codice legislativo, in questo caso, parla chiaro: "È vietata per legge
l’inversione della responsabilità dall’autore alla vittima, cioè la
vittimizzazione secondaria", dice Travaglini a
la Repubblica.
La "vittimizzazione secondaria", ovvero l'inversione di responsabilità tra vittima e carnefice, è vietata dalla legge ma ancora molto frequente
Se la magistratura deve fare il suo lavoro e accertare quello stupro ancora presunto, la denuncia esiste, è stata depositata e nessuno può arrogarsi il diritto di contestarla, fino a sentenza passata in giudicato.
Il tempo per denunciare
Soprattutto nessuno, né un padre, né un amico, né un giornalista o un utente della rete ha il diritto di stabilire quello che si può e che non si può fare con il corpo altrui, né quando la donna deve parlare dell'orrore subito con le autorità. Cosa che, invece, puntualmente avviene. "In Italia il
limite di tempo per denunciare una violenza sessuale è di dodici mesi (art. 609
septies c.p.,
ndr)- scrive ancora la direttrice Pini -: si sta discutendo sull’opportunità di allungare ulteriormente i termini, e questo proprio in virtù della difficoltà e della delicatezza che ci sono dietro tal genere di denunce". Eppure, nel caso Grillo Jr come in quello del terzogenito di casa La Russa, ma in tanti troppi altri episodi, viene messa fortemente in dubbio la credibilità di chi sceglie di rivolgersi alle forze dell'ordine per raccontare
quanto subito non subito dopo ma nel momento in cui si sentono serene nel farlo, supportate, riponendo fiducia nel decorso della giustizia.
Il presidente del Senato con il terzogenito Leonardo Apache
"Di sicuro lascia molti interrogativi una
denuncia presentata dopo quaranta giorni dall’avvocato estensore che – cito testualmente il giornale che ne da notizia – occupa questo tempo ‘per rimettere insieme i fatti'", dice ad esempio Ignazio La Russa, difendendo il figlio. Ma il presidente del Senato dovrebbe ripassare i codici, che invece consentono alle
vittime di scegliere quando farlo, entro l'anno: che sia dopo poche ore, dopo un mese o dopo undici e 29 giorni non può né deve sminuire la valenza della loro voce. Perché nessuno e nessuna può comprendere cosa si prova subendo una molestia o uno stupro né quanto ci voglia per assimilarla, per rendersi conto di essere una
sopravvissuta.