Le prime avvisaglie erano arrivate, come spesso accade in casi del genere, dagli States. Nell’autunno scorso la Harvard business review aveva pubblicato un articolo dal titolo "Who Is Driving the Great Resignation", nel quale si dava conto di un fenomeno inatteso e in gran parte inedito, almeno per le dimensioni che stava assumendo: un aumento rilevante di dimissioni dal lavoro.
Una crescita che avveniva, paradossalmente, proprio mentre le imprese non riuscivano a trovare personale anche a salari più alti. Secondo quanto scrive l’autore dell’articolo, Ian Cook "Nel luglio 2021 quattro milioni di americani hanno deciso di lasciare il lavoro. Le dimissioni sono state molte anche nei mesi precedenti, raggiungendo in totale 10,9 milioni di posti di lavoro alla fine di luglio”. Il pezzo contiene anche un’analisi su oltre nove milioni di dipendenti di oltre 4mila aziende su un’ampia varietà di settori, funzioni e livelli di esperienza. Le dimissioni dal lavoro hanno riguardato soprattutto i dipendenti tra i 30 e i 45 anni di livello medio. In un articolo più recente, la quota di lavoratori che hanno lasciato volontariamente il proprio lavoro è cresciuta ulteriormente raggiungendo a settembre 2021 un nuovo record: da maggio a settembre si sono dimessi complessivamente 20,2 milioni di lavoratori, molti di loro nel settore del tempo libero e dell’ospitalità, dove addirittura il 6,4% dei lavoratori ha lasciato volontariamente il lavoro. Ma come mai accade questo?
Le ragioni del fenomeno
Una delle principali cause all’origine delle dimissioni di massa è ritenuta essere la sindrome da burnout, cioè una situazione professionale percepita come logorante dal punto di vista psicofisico. In tempi di pandemie questo vale soprattutto per infermieri, medici e altri operatori sanitari. Ma numerose dimissioni si sono registrate anche nel comparto informatico e tecnologico. In questo caso l’andamento positivo del settore, presumibilmente, ha indotto molti ad abbandonare il precedente lavoro alla ricerca di migliori compensi e di una maggiore autonomia e di flessibilità degli orari.
E in Italia?
Anche nel nostro Paese i dati disponibili relativi al secondo trimestre 2021 evidenziano un aumento considerevole di lavoratori che si sono dimessi. L’incremento è del 37% sul trimestre precedente e addirittura dell’85% sul secondo trimestre del 2020. Al momento non si possono ancora trarre delle indicazioni attendibili sul futuro del mercato del lavoro, e sono necessari studi su una base statistica più ampia. Ma, secondo i dati dell’Associazione nazionale della direzione del personale (Aidp), nei primi mesi del 2021 sono stati circa 770mila i lavoratori con contratti a tempo indeterminato che hanno deciso di dimettersi. Lasciano il lavoro soprattutto i giovani fra i 26 ai 35 anni, seguiti dai colleghi di poco più anziani, fino ai 45 anni di età.
Come negli Stati Uniti, a quanto pare, conta anche la ripresa con la prospettiva, soprattutto in alcuni settori, di migliorare il proprio stipendio e le proprie condizioni lavorative: è quello che pensa il 48% degli intervistati. Al secondo posto, con il 47%, troviamo l’aspirazione a condizioni più favorevoli. Ma, subito dopo, con il 41%, c’è chi cambia lavoro per trovare un maggiore equilibrio fra la vita in azienda e quella privata. Nel 38% la motivazione è quella della carriera. Ma una lettera di dimissioni su quattro è dettata dalla volontà di dare un nuovo senso alla vita.
Secondo Matilde Marandola, presidente dell’Aidp, "la verità è che la pandemia ha sparigliato le carte, e c’è un cambio di mentalità evidente. I giovani non si accontentano più del primo lavoro che capita, cercano un contesto che possa essere accogliente, anche dal punto di vista etico, della sostenibilità e della responsabilità sociale. Le aziende devono adeguarsi al nuovo paradigma non solo per attrarre i giovani talenti, ma anche per trattenerli”.