L’Intelligenza Artificiale (AI) genera dibattito tra aspettative e realtà, anche riguardo all’inclusione.
Da un lato, uno studio Ipsos rivela che globalmente la discriminazione algoritmica è meno temuta di quella umana. C’è infatti più fiducia nella capacità di non discriminare dell’AI (54 per cento a livello globale, 61 in Italia) che nell’imparzialità degli esseri umani (45 per cento globale, 60 Italia).
Dall’altro lato, permangono ostacoli all’inclusione, come il divario di genere, a cominciare dalle competenze digitali. L’Italia, secondo i dati WiD del 2022, è al 21esimo posto nell’Unione Europea per inclusione digitale femminile: solo il 43 per cento delle donne possiede competenze digitali di base e il 20 per cento dispone di competenze avanzate (contro il 52 e 25 per centro dell’Unione Europea). Una recente ricerca dell’Ipsos mostra che solo il 17% delle donne italiane, a fronte del 44% degli uomini, sa cosa sono i cosiddetti ’deepfake’.
L’IA, richiedendo dunque nuove competenze, rischia di amplificare il divario. Inoltre, se la società ha un problema di differenze di genere, l’AI rispecchia, e persino amplifica, i pregiudizi. Ad esempio, se globalmente le donne sono meno rappresentate nel mondo digitale questo si riflette nei dati su cui viene addestrata l’AI. Il settore ha quindi bisogno di più donne perché da chi sviluppa l’AI e dai dati su cui viene addestrata dipende il ‘gender bias’ delle soluzioni relative all’Intelligenza Artificiale.
Investire nella formazione STEM (acronimo per Science, Technology, Engineering and Mathematics) femminile, promuovere modelli di ruolo femminili nel tech e sensibilizzare sulla diversità nell’AI è cruciale per un futuro innovativo ma anche equo.