Crazy for Football è una storia straordinariamente bella, incentrata su una squadra di calcio a 5 formata da ragazzi con problemi di salute mentale. Un racconto edificante e commovente, che non è frutto della fantasia di un abile sceneggiatore perché si ispira a un progetto concreto e vivissimo, voluto dal neuropsichiatra Santo Rullo e dal ct Enrico Zanchini.
Un’iniziativa che si è tradotta in una miriade di successi, culminati nel settembre scorso con la vittoria della prestigiosa Euro Dream Cup. Trionfi non soltanto in campo, ma anche tra gli ambienti scientifici e sportivi che guardano al modello di inclusione come assolutamente ideale per la sua concretezza e l’evidenza dei risultati anche e soprattutto di tipo terapeutico. L’allenatore Zanchini precisa: “La nascita della Nazionale, nel 2016, con la sua partecipazione al primo mondiale in Giappone, è stata raccontata dal documentario ‘Crazy for football’, vincitore, tra l’altro del David di Donatello 2017.
Successivamente ha ispirato, insieme al Mondiale organizzato e vinto nel 2018, un film per la tv interpretato da Sergio Castellitto, andato in onda nel novembre 2021 in prima serata su Rai1 e visto da quasi tre milioni di persone”.
I ragazzi di Crazy for Football
Ma chi sono i ragazzi di Crazy for Football? È ancora Zanchini a spiegarlo: “Persone con qualche disagio, talvolta importante, ma di fatto giovani atleticamente preparatissimi , capaci di allenarsi come veri atleti e in grado di migliorare giorno dopo giorno in attesa dei migliori risultati possibili. Si rispettano molto tra di loro, vivono bene le loro esperienze di spogliatoio e non vedono l’ora di vincere. Più normali di così…”.
Ragazzi che, come racconta in alcune sue dichiarazioni il dottor Rullo, hanno visto diventare i propri sogni una realtà, senza più correre il rischio che tutto potesse trasformarsi nel peggiore degli incubi: “Queste erano persone perennemente in panchina in perenne attesa che passasse la giornata e rassegnati all’iniezione di neurolettico una volta al mese: in una parola ad aspettare la morte. Con il calcio hanno riscoperto il gusto della relazione e come giocare possa significare ritrovare la memoria emotiva di prima, quando ancora bambini tiravano calci al pallone senza essere malati”.
Oggi i calciatori di Crazy for Football, selezionati sul tutto il territorio nazionale, tornano ad alzare al cielo un trofeo di enorme prestigio e questo grazie al lavoro di Enrico Zanchini, loro ‘mister’ e uomo di immensa umanità. La loro vita è finalmente illuminata dagli allenamenti e dai tanti successi, il loro esempio forte si è perfino tradotto in film conquistando milioni di telespettatori. Sono atleti, sono ragazzi forti e vincenti. Hanno sconfitto il loro peggiore avversario, quello che, maligno, si era un giorno annidato in loro.
L’intervista al ct
Mister, cosa significa per lei questa vittoria?
“Una gioia enorme, frutto di un percorso che con questo gruppo è iniziato da almeno 2/3 anni. Un lavoro lungo, difficile e faticoso ma proprio per questo la soddisfazione della vittoria è stata ancora più grande, ulteriormente aumentata dall’alto livello della manifestazione, come ha dimostrato la finale, una gara bellissima e dura”.
Quando è cominciata la sua avventura come allenatore di ragazzi con disabilità?
“Francamente non li considero diversamente abili, sono abili e basta. Sono giocatori forti con problemi di salute mentale che non inficiano la loro capacità atletica: se il calcio e la società fossero diversi potrebbero certamente giocare anche in campionati federali di alto livello. È un percorso che cerchiamo di permettere loro di fare fin dal gennaio 2016, inizio del nostro progetto”.
Come giudica l'integrazione di queste persone nel contesto sportivo?
“Integrazione è un’altra parola che non amo molto: chi ha una disabilità di tipo psicosociale può essere naturalmente incluso in qualsiasi contesto sportivo, non solo in quelli ad hoc. Ho gestito per 18 anni un circolo sportivo e una società di calcio a 5 a Roma, in cui la presenza e la partecipazione di persone con fragilità era cosa normale. In questo contesto c’erano giocatori della Nazionale che si allenavano con la nostra prima squadra e ragazzi con disturbi mentali che svolgevano il ruolo di istruttori della scuola calcio. Il problema è casomai il pregiudizio e lo stigma sociale verso i cosiddetti ‘matti’, che coinvolgono purtroppo lo stesso ambito calcistico. Si tratta di ambienti, dove un po’ a tutti i livelli vengono considerati ‘normali’ e di fatto accettati, certi modelli comportamentali diseducativi, aggressivi, quando non addirittura violenti e razzisti. Atteggiamenti che invece andrebbero stigmatizzati e bloccati sul nascere”.
Quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano?
“Le difficoltà sono soprattutto di tipo organizzativo. Siamo una vera Nazionale, i giocatori sono stati selezionati in questi anni in tutto il territorio, quindi non è facile organizzare con frequenza eventi e raduni soprattutto per motivi economici e logistici. Poi c’è il problema della disponibilità: viste le problematiche dei ragazzi, sono chiaramente più numerosi e seri i motivi per cui un giocatore non può rispondere a una convocazione. Per questo ormai abbiamo allargato la rosa a trenta giocatori, in modo da poterne convocare ogni volta almeno 13-14 senza abbassare il livello”.
Può definirsi un percorso riabilitativo?
“Che lo sport possa e debba giocare un ruolo importante nella riabilitazione delle persone con problemi di salute mentale è ormai assodato, anche a livello medico-scientifico. Per i nostri ragazzi, in particolare, entrano poi in gioco anche elementi peculiari del nostro progetto: la gratificazione di essere selezionati, allenati da tecnici federali e trattati come atleti, di indossare la maglia della Nazionale e infine di giocare ad alti livelli arrivando a vincere. In un simile percorso ci sono tutti i segni di un riscatto meritato. Senza dimenticare l’aspetto fondamentale che riguarda la socialità e l’autonomia che crescono grazie al rapporto con i compagni, i viaggi, i ritiri e la vita di spogliatoio. Tutte cose che appaiono scontate per chi fa sport di squadra, ma non certo per loro. Purtroppo”.
È un modo ideale per sottrarre questi soggetti all’emarginazione?
“Non credo esista un modo ideale per sottrarre una persona all’emarginazione, per includerla, per farle ritrovare il piacere della socialità e la voglia di mettersi in gioco. So però che il calcio può in questo senso essere uno strumento potentissimo, che andrebbe usato sempre più spesso in questa direzione”.
Che rapporto si è venuto a instaurare tra voi?
“Il rapporto che negli anni abbiamo instaurato con questi ragazzi è sicuramente uno dei motivi di maggior soddisfazione: da una parte è un classico rapporto giocatore/allenatori (io e il mio staff, con Riccardo Budoni e Cristian Simina), dall’altra, per tanti motivi diversi, è diventato anche qualcos’altro. Abbiamo cercato di sostenerli nei momenti di difficoltà, in qualche caso di aiutarli a trovare situazioni abitative, lavorative o calcistiche che potessero agevolare il loro percorso di cura e di vita. Questo ovviamente ha creato legami ancora più forti, con alla base un grande rispetto e riconoscenza reciproci”.
È vero che la vostra storia ha ispirato un film?
“La nascita della Nazionale, nel 2016, e la sua partecipazione al primo mondiale in Giappone è stata raccontata dal documentario ‘Crazy for football’, vincitore, tra l’altro, del David di Donatello 2017. Successivamente ha ispirato, insieme al mondiale organizzato e vinto nel 2018, un film per la tv andato in onda nel novembre 2021 in prima serata su Rai 1, visto da quasi tre milioni di persone.”
A chi dedica questi suoi successi in campo e non?
“In generale a tutti quelli che da anni sostengono il progetto, ai quasi 400 ragazzi che si sono presentati in questi anni alle nostre selezioni, alle strutture che li hanno accompagnati e alle loro famiglie. In particolare a tutti i giocatori della Nazionale, presenti e passati, a chi ha potuto vincere sul campo questo Europeo e a chi, per scelta tecnica o altri motivi, ha potuto solo tifare. E un pensiero speciale va a due ragazzi che ho particolarmente nel cuore: Ruben Carini, il nostro capitano campione del mondo che speriamo sempre possa tornare con noi, e Antonio Barba ,che non c’è più, ma che ricordiamo prima di ogni partita con il nostro urlo di squadra”.