“I dati non sono neutri, sono dei costrutti sociali”, parola di Donata Columbro. Giornalista, divulgatrice e scrittrice, docente di data journalism, ha recentemente pubblicato il suo nuovo libro “Quando i dati discriminano” (Il Margine), che è un approfondimento sul tema della lettura dei dati e delle forme di discriminazione che spesso questi portano con sé, specie a livello di minoranze, a dispetto delle nostre convinzioni circa il fatto che “niente sia più oggettivo” di questi.
Eppure, spiega Columbro, “C’è un intervento umano in ogni step del processo che ci fa arrivare ad avere il risultato finale. Si comincia dal fatto che si decide cosa osservare, cosa misurare e quantificare, e poi anche il metodo che utilizzo, gli strumenti fanno parte dei momenti di intervento e di scelta che sono per forza influenzati dal contesto, dalla storia personale di chi si occupa di queste tematiche”. Proviamo ad andare più a fondo della questione.
Com’è arrivata a questo tipo di studi e a questo libro?
“Io mi occupo di dati, lavoro nel giornalismo dei dati da 10 anni circa. E mi sono resa conto che il modo che è sempre stato insegnato, portato avanti, legato all’apprendimento e alle competenze sui dati o a come viene inserito nel discorso pubblico riflette poco sul come lo stiamo facendo, sulle categorie e le parole che accompagnano i dati. È un percorso che arriva da scienze giuridiche, relazioni internazionali e diritti umani, quindi osservando il mondo dal punto di vista delle discriminazioni e disuguaglianze, e poi è stata fondamentale la lettura di ‘Data Feminism’ in cui le autrici fanno capire molto bene intanto che i dati sono costrutti sociali e che ci sono relazioni diverse tra chi li raccoglie e chi subisce la raccolta dati; quindi osservare queste dinamiche di potere è stato molto utile per capire che i dati non sono neutri”.
Ci fa qualche esempio?
“Nell’ottica dello sguardo di genere dove ci sono discriminazioni che riguardano le donne, abbiamo il caso dei dati che mancano in diversi ambiti: per esempio quando si parla di diritto alla casa o quando si parla di povertà, sono raccolti per nucleo familiare, non per singoli individui, quindi non abbiamo il dato che ci va a raccontare come vivono le donne la povertà. Così come manca l’intersezionalità dei dati sulla violenza contro le donne: su questa li abbiamo, ma non quelli sulle donne disabili. Qua parliamo di dati che discriminano perché creano dei gap. Poi abbiamo un caso in cui abbiamo più dati su certe persone, penso per esempio ai migranti che arrivano via mare e su di loro vengono raccolti dati biometrici che li mettono nella condizione di essere schedati dai sistemi di polizia anche se non hanno commesso alcun reato. Si crea già così uno status di discriminazione”.
Intersezionalità dei dati: ce la spieghi meglio
“è uno sguardo alle dinamiche di oppressione intersezionali, che vanno a sommarsi a seconda sia della condizione che del contesto, perché una certa categoria di persone può essere avvantaggiata o discriminata in alcuni contesti ma non in altri. Pensiamo alle donne: io sono discriminata in quanto donna in alcuni ambiti ma non in altri perché comunque ho la cittadinanza italiana per esempio. Quindi questo fa di me una persona che gode di più diritti di un uomo migrante senza documenti. È uno sguardo che serve a cercare le discriminazioni e la raccolta dati ci aiuta a fermarle”.
I dati, oltre a mostrare qualcosa, possono incidere perché questo qualcosa rimanga tale o invece cambi? Ad esempio: parlare di minoranze sociali attraverso dati comunque non neutri può contribuire a aggravare o migliorare la loro situazione?
“Intanto il dato contribuisce a creare una narrazione di un fenomeno. Se io di certe persone raccolgo solo dati che raccontano la loro criminalità oppure che riguardano solo i loro bisogni ma non i loro interessi (penso alle persone disabili), oppure mi interessa solo quando queste fanno parte delle categorie produttive per una società e non vado a cogliere altri tipi di bisogni o caratteristiche che ci sono, io rimango con un vuoto e questo vuoto rischia di aumentare la discriminazione perché nessuno si va a occupare di quella problematica”.
Come risolvere il problema della discriminazione?
“Come dico nelle conclusioni del libro discriminare vuol dire fare delle scelte quindi purtroppo dal momento che si tratta di un processo umano e siamo noi esseri umani che ci occupiamo anche della creazione di strumenti che raccolgono i dati, dire che non possiamo discriminare è impossibile. Quello che possiamo fare è essere consapevoli, eventualmente correggere le discriminazioni ma anche chiederci se sia sempre necessario usare i dati per valutare una situazione. Forse non lo è…”.
Come si valuta un fenomeno senza i dati?
“Magari guardando a cose che non sono state quantificate, a qualcosa che non è stata misurata. Pensiamo agli ospedali: sono misurati gli accessi al pronto soccorso, i minuti di coda e quanti medici lavorano all’interno, ma non viene calcolato ad esempio il livello di stress delle persone che lavorano lì dentro, quante volte sono andati in permesso per burnout… Nel momento in cui decido di dare dei dati per prendere decisioni e cambiare una situazione devo cercare di capire se sto davvero raccogliendo e utilizzando i migliori, quelli che mi fanno capire cosa sta succedendo. Serve continuare a interrogarsi”.
Lei ha subito discriminazioni?
“In realtà ho sempre cercato di proteggermi prima che potesse capitare, lavorando da libera professionista. Le discriminazioni sono quelle che vivono le donne che hanno famiglia e che devono o faticare il doppio o, quando si hanno figli, rinunciando a opportunità di carriera. Non è successo a me in particolare, ma mi sono trovata anche io a confermare il fatto che fermarmi negli anni in cui sono nati i miei figli ha fatto scendere il mio fatturato. Ma non è sceso quello di mio marito, quindi vuol dire che questa cosa ha inciso molto più su di me che su di lui nella coppia. Non la metterei come qualcosa che mi è successa, ma magari sto minimizzando, si fa fatica a parlare di sé in questo senso quando non ti è mai successo nulla di eclatante, se non ogni tanto essere chiamata signorina, o non essere presa troppo sul serio per il mio lavoro o essere scavalcata da chi ne sa meno di me solo perché sono donna”.
Cosa si augura, per così dire, dal suo libro?
“Che faccia vedere una volta per tutte che non è detto che per forza i dati non aprano a un’opinione, c’è sempre l’idea che il dato sia qualcosa di oggettivo, che quando è stato dato non è più confutabile quel tema e che non posso più rispondere. Questo accade coi temi dominanti. Ma quando viene portato il dato per dimostrare discriminazioni o disuguaglianze, o qualcosa che invece sta funzionando va contro l’opinione comune magari conservatrice, allora il dato non si usa più. Quindi l’augurio è che così ci si renda conto che stiamo parlando di uno strumento di rappresentazione della realtà, non l’unico possibile, che è contestualizzato. È una fotografia”.