"Ieri mi ribellai al concorso nello Stato riservato ai soli uomini, oggi mi batto perché i bimbi portino anche il cognome della madre"

di LAURA DE BENEDETTI
13 maggio 2021
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Rosanna Oliva de Concillis

La data, 13 maggio 1960, è da pietra miliare. Ma su quel pezzo di marmo ideale, posto a segnare il traguardo raggiunto nella storia delle italiane, va senz'altro inciso anche il nome di Rosanna Oliva de Concillis. Fu  grazie al suo ricorso che quel giorno di 61 anni fa, la Corte Costituzionale dichiarò illegittima la norma che fino ad allora aveva impedito alle donne di accedere alla carriera prefettizia e diplomatica. Le discriminazioni tra i sessi per l'accesso ai pubblici uffici caddero con effetto domino. Solo 3 anni dopo, infatti, il 9 febbraio del '63, il Parlamento approvò la legge n.66, che recita: 'La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura'.  Restarono precluse alle donne, all'epoca, solo le carriere militari. Rosanna Oliva, 86 anni, salernitana d'origine, trasferitasi a Roma, dove si è laureata in Scienze Politiche, è considerata la 'Rosa Parks' italiana per aver cambiato il corso della storia con un "no". Un'agire civile per il quale il 13 marzo scorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Quirinale, le ha consegnato la massima onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.. Ascoltiamo i suoi ricordi. Cosa la spinse a presentare ricorso contro quel concorso 'per soli uomini'? "Ero cresciuta in una famiglia con figure femminili molto forti. Come mio fratello potei laurearmi. Per cui fino a quel momento non mi ero resa conto delle discriminazioni. Fu quando mi misi a cercare lavoro che mi imbattei in quel bando pubblico per l'accesso in Prefettura rivolto solo alle figure maschili. Lo lessi come un rifiuto, non solo verso me ma verso i principi costituzionali studiati all'Università. Così ne parlai al giudice costituzionalista con cui avevo sostenuto la tesi, Costantino Mortati. Fu lui a chiedermi se volevo agire. Correvamo il rischio che rimanesse senza parcella se avessimo perso, invece le spese legali ci furono riconosciute. L'aspetto economico non deve essere un freno. Oggi ci sono associazioni che sostengono le spese legali in caso di ricorsi". Che reazione ci fu alla sentenza? "Fece molto scalpore. Fotografi e giornalisti vennero a casa, chiedendomi di posare in cucina. Uscirono titoli in cui venni definita la 'prefetta con lo chignon'. In realtà non ero prefetta. Avrei potuto far annullare il concorso che nel frattempo aveva avuto luogo, ma avrei fatto un danno ad alcuni coetanei. Annullando la norma, l'accesso alle carriere prefettizie anche per le donne, da quel momento in poi, era comunque già automatico. La sentenza fu importante anche per altri motivi. I giudici fecero una scelta molto coraggiosa. Eravamo tra il '58 e il '59, 10 anni dopo la nascita della Costituzione, e non tutti ritenevano che la nostra Carta potesse essere così incisiva rispetto alle leggi ordinarie. Il pronunciamento della Corte era comunque anche un tacito invito al Parlamento ad intervenire, con i tempi tecnici, sull'esclusione delle donne dalle carriere pubbliche. Ed infatti solo 3 anni dopo il Parlamento approvò la legge n.66, di cui era prima firmataria la democristiana Maria Cocco, che dava accesso a tutte le cariche e gli impieghi pubblici. Abbiamo dovuto aspettare invece 40 anni per le carriere militari, ma se oggi abbiamo un'astronauta come Samantha Cristoforetti è perché le donne sono potute entrare nell'Aeronautica. Ancora oggi ci sono le resistenze della società patriarcale: gli uomini al potere preferiscono violare la Costituzione piuttosto che aprire alla parità. E le donne sono ancora lontane dalle posizioni apicali pur essendo in maggioranza in molte professioni, come in magistratura, nelle università". Ci fa un esempio di altre resistenze che lei combatte? "La sentenza 286 dell'8 novembre 2016 ha stabilito l'incostituzionalità della norma che vietava di aggiungere il cognome materno ai figli. La Corte Costituzionale ha richiesto al Parlamento di legiferare in merito, ma dopo 5 anni la riforma non c'è ancora. Ora la Corte, dopo altri ricorsi, ha avocato a sé tutte le disposizioni per cancellarle in base all'art.2 della Costituzione che tutela la persona. In questo caso, è stato detto dal giudice, con l'assenza del cognome materno non è cancellata solo l'identità femminile, che pare subordinata a quella maschile, ma a rimetterci sono anche figlie e figli rispetto alla loro ascendenza. Con la mia associazione, Rete per la Parità, sono per il doppio cognome per legge, salvo diversa volontà espressa dai coniugi". Il suo orizzonte continua a guardare lontano, verso un'altra pietra miliare ideale. Lei dal 2016 coordina il Gruppo di lavoro per l’obiettivo 5, Parità di genere, dell'Agenda Onu 2030, dell’ASviS (Alleanza It. per lo sviluppo sostenibile, che riunisce trecento tra le più importanti istituzioni e reti della società civile). A che punto siamo? "Gli uomini oggi, nella società così come nell'economia, continuano a fare abuso di posizione dominante, decidono su questioni dei diritti delle donne e disattendono i principi costituzionali. In alcune regioni non si riesce ancora ad ottenere la doppia preferenza di genere. Anche il dibattito sul linguaggio al femminile nelle professioni riguarda l'invisibilità delle donne o l'omologazione al maschile. Con la pandemia c'è stato un passo indietro. In un'Italia già in condizione arretrata a rimetterci il lavoro sono state al 99% le donne, confinate in casa, in famiglie non sempre ideali, con un'incremento dei tassi di violenza. Il virus ha accresciuto il compito di cura delle donne verso figli e anziani, anche perché c'è la mancanza di strutture sociali, di medicina del territorio. E' il momento di passare dai proclami ai fatti".