La crisi climatica è sotto gli occhi di tutti, i negazionisti se ne facciano una ragione. Se quella del 2023 è passata alla storia come l’estate più calda di tutti i tempi, c’è da scommettere che l’inverno che sta per volgere al termine non sarà affatto da meno. Eventi estremi, siccità e cicli della natura letteralmente impazziti fanno da corollario a un cambiamento molto più repentino del previsto. La transizione appare l’unica via per fermare la corsa del climate change, mitigarne gli effetti e attivare piani di adattamento - ove possibile - su larga scala.
Ma chi paga i costi della riconversione? Il tema è spinoso e in prima fila vede proprio loro, le aziende. Nonostante le numerose misure pubbliche a sostegno della transizione, sono ancora moltissime le voci di costo green a carico dei privati. Strategie per l’ottimizzazione delle emissioni e dell’impatto Co2 per sedi, impianti e ciclo produttivo e infrastrutture digitali sono solo alcune delle implementazioni che le aziende devono mettere in campo per fare la propria parte. Azioni che, stando ai sondaggi, generano alle realtà aziendali non solo un vantaggio d’immagine ma anche un tangibile ritorno economico. Una vera e propria rivoluzione che deve trovare casa, per prima cosa, nella visione di manager e vertici aziendali che sempre di più dovranno essere formati sul fronte della sostenibilità ambientale.
L’indagine “Gli Italiani, la sostenibilità e le imprese”
Effettuata su un campione di 1.000 italiani maggiori di 18 anni, commissionata da FpS e presentata in occasione del lancio del progetto Sustrain, agenzia specializzata nel rispondere a ogni necessità aziendale durante il percorso di transizione sostenibile, parla chiarissimo: la Co2 – e la riduzione del suo impatto sull’ambiente – è l’argomento principe per gli italiani quando si parla di impegno ambientale aziendale. Secondo l’84% degli intervistati, lo sforzo di transizione non potrà che essere premiato dal mercato. Nell’opinione di Gianluca Schinaia, Head of Sustainability di Sustrain, questi numeri non fanno che confermare un trend che ha preso il largo negli anni post Covid e che prosegue saldamente sulla strada della crescita. La sostenibilità non è più, infatti, un di più, ma una caratteristica intrinseca di un prodotto. Una logica figlia di un processo culturale che è riuscito a far viaggiare all’unisono obblighi normativi e competitività.
I dati
Che l'impegno per la sostenibilità si rifletta sul lato commerciale dell’impresa è innegabile: per gli italiani la scelta di acquistare prodotti di marche considerate sostenibili conta nell’89% dei casi. Di questi, il 17% ha preferenza assoluta per brand sostenibili, che diventa 20% nei giovani e 21% in coppie genitoriali. Nel 33% dei casi, le marche sostenibili sono valutate a parità di prezzo e nel 39% è valutata la sostenibilità insieme a qualità e prezzo.
In particolare, è soprattutto negli alimentari freschi che gli italiani sono disposti a spendere di più (62%), seguiti da infrastrutture domestiche, come riscaldamento, condizionamento, infissi, etc. (36%), prodotti per la salute (35%) e prodotti per la casa (35%). Più distanti abbigliamento (29%) e mezzi di trasporto (25%). Unica nota dolente il turismo: solo il 18% accetta di spendere cifre più alte per effettuare viaggi sostenibili. E se il 96% degli intervistati pensa che la sostenibilità abbia un ritorno d’immagine per l’impresa, l’81% è convinta persino che generi un guadagno economico.
Incentivi fiscali, li chiede il 41%
Numeri incoraggianti che non possono che spingere le imprese a fare sempre di più e meglio in chiave ambientale, a partire da una formazione costante di chi ha ruoli dirigenziali. Il motore (verde) del cambiamento è ampiamente in moto e la consapevolezza dell’importanza delle tematiche ambientali nelle imprese è un ottimo dispensatore di energia (rinnovabile). Non resta, quindi, che sostenere la transizione a partire da incentivi fiscali, come chiede il 41% degli intervistati. La sintesi è presto detta: la transizione sia ambientalmente ed economicamente sostenibile o non sarà.