Riccardo Taverna: “Ho 60 anni e 3 malattie. Se potessi scegliere rinascerei perché la vita è bella”

Presidente di Weglad, esperto di sostenibilità aziendale e comunicazione d'impresa. Riccardo Taverna era un campione di judo prima che la Cdp arrivasse a bloccare la sua carriera a 23 anni. Poi il Parkinson e un infarto. Con lui abbiamo parlato durante Sky Inclusion days di sostenibilità e accessibilità, come battaglia di civiltà

di TERESA SCARCELLA -
27 maggio 2024
Riccardo Taverna durante Sky Inclusion Day

Riccardo Taverna durante Sky Inclusion Day

"Ho 60 anni e tre malattie: a 23 anni la cdp , (una malattia neuro degenerativa) poi il Parkinson e infine un infarto. Se devo dire perché sono ancora qui che combatto, è perché la vita è bellissima e merita di essere vissuta" .

Riccardo Taverna , di Milano, esperto di sostenibilità aziendale, gestione della reputazione e comunicazione d'azienda, presidente di Weglad , è una di quelle persone con cui avrei voluto che l'intervista durasse delle ore. E non lo dico per piaggeria. Anzi, se Riccardo ci sta leggendo, questo è un invito ufficiale per una chiacchierata più approfondita. 

Nel frattempo vi raccontiamo il nostro breve incontro durante l'evento Sky Inclusion Days a Milano. Pochi minuti che però gli sono bastati per regalarci un prezioso insegnamento. 

“Mia madre una volta mi disse: 'scusami Riccardo per essere stata una cattiva mamma, perché ti ho fatto malato'. Io le risposi che se per caso riuscissero a farmi tornare dentro di lei e un minuto prima di nascere mi dicessero che a 40 anni sarei stato sulla carrozzina, io sceglierei comunque di nascere. Perché la vita è bella”. 

Anche se costringe a rivedere i piani, se non sempre ci stupisce in maniera positiva...

“Fino a 23 anni ero un campione di judo, ero convinto di fare un certo tipo di vita, fatta di sport, di attività fisica, invece mi è cambiata del tutto. Ho dovuto arginare quello che mi è capitato. Nel mio libro parlo di “Tutte le fortune”: la mia fortuna è che la cdp, la prima malattia, è lenta, ha un decorso lento e io ho il tempo di adattarmi”. 

Non sempre però la capacità di adattamento dipende da sé stessi. La società può complicare le cose. Com'è messo il nostro Paese in termini di accessibilità?

“L'Italia in accessibilità è messa molto male, ci sono tantissimi immobili antichi non accessibili. Ma è anche un fatto di cultura. L'accessibilità vuol dire libertà: se io non posso accedere a una parte del mondo a causa di uno scalino, non sono libero. Combattere contro le barriere architettoniche è una battaglia di civiltà”.

Cosa si intende, invece, per la sostenibilità aziendale?

“Si intendono tutte le prestazioni di un'impresa dal punto di vista ambientale, sociale ed economico. Un'azione che coinvolge tutti gli stakeholder”.

Nel confronto con altri Paesi europei, a che punto siamo?

“L'Italia ha delle eccellenze spiccatissime, ma il concetto di sostenibilità deve ancora svilupparsi all'interno del tessuto economico, fatto di piccole e medie imprese. M anca il commitment da parte dei vertici, la piena fiducia nel progetto e nella sua realizzazione. La sostenibilità deve essere intesa come modello di gestione". 

Questo è un gap culturale, generazionale se vogliamo.

“E' assolutamente un fattore culturale”. 

Oggi se ne parla tanto di sostenibilità, di green. Ma qual è il limite tra il vero impegno dell'azienda e un interesse puramente comunicativo, di marketing?

“Parlare oggi di comunicazione è pericoloso, si rischia sempre di sbagliare. Tanto che il greenwhashing sta per essere soppiantato dal greenhiding, ovvero il nascondere, il non comunicare per non sbagliare”.

L'utente ha gli strumenti per riconoscere e distinguere il greenwhashing? 

“Il consumatore non ha la sensibilità per capire e distinguere, va sulla fiducia. Ma stiamo facendo passi avanti e il consumatore si sta avvicinando sempre di più alla sostenibilità di un'azienda, anche grazie alle nuove tecnologie. Quindi abbiamo una speranza”.