Ogni volta che noi raccontiamo una storia scegliamo un modo specifico di raccontarla. Le
parole che adottiamo finiscono per connotare l’oggetto della nostra narrazione. Proprio sull’uso delle parole e sulla loro importanza, per riprendere un famoso spezzone del film 'Palombella rossa' di Nanni Moretti, si riflette da alcuni anni nei
collettivi femministi e
LGBTQI+. In particolare negli ultimi anni fanno discutere tutte quelle sperimentazioni che vorrebbero rendere la nostra
lingua più inclusiva o, come dice lo scrittore Fabrizio Acanfora, una lingua che "permetta
la convivenza delle differenze". È importante proprio per rimanere sulla scia dell’uso della lingua in maniera ragionata e accorta già spendere qualche parola sul termine
inclusività. Dire ‘lingua inclusiva' significa togliere agentività a chi viene incluso, prevede infatti che un gruppo ‘conceda’ ad un altro di inserirsi. Per questo motivo ha più senso proporsi di creare una lingua che contempli vari soggetti. Un esempio concreto è il
saluto: quando vogliamo salutare una moltitudine mista tendiamo a utilizzare il
maschile plurale sovraesteso come 'Buongiorno a tutti', anche se nel gruppo c’è una maggioranza femminile.
Il sessimo nella lingua
Il problema del
sessismo della lingua, caratteristica che è stata problematizzata negli ultimi anni, comporta notevoli difficoltà per tutte quelle persone che hanno
identità non binarie, ovvero tutte quelle persone che non rispondono al
genere femminile e maschile e che non si sentono rappresentate in questi due sistemi culturali. Come sottolinea Vera Gheno, sociolinguista sensibile al tema, le parole sono un atto identitario e per questo, anche se stiamo parlando dell’1% della popolazione, non possiamo sottovalutare la questione. È proprio per questo motivo che si sperimentano ad oggi alternative grafiche per rispondere a questo problema fino ad ora sconosciuto ai più, vengono infatti utilizzati simboli come
@, la ‘
u’, la ‘
x’ o l’
* in fondo alle parole. Ultimamente a questa lista si è aggiunto anche lo
schwa il cui simbolo è una sorta di e rovesciata ә. Questo simbolo ha un
suono indistinto (lo stesso che produciamo quando non sappiamo rispondere a una domanda e prendiamo tempo, emettendo un suono con la bocca a riposo) che rappresenta un
genere indistinto. Le
polemiche riguardo a questa sperimentazione sono state molteplici e di vario genere. Si sono infatti scatenate accuse da parte di chi sostiene che una simile proposta sia una imposizione dell’
ideologia gender, chi invece ne fa una questione di
uso corretto della lingua italiana, chi invece muove in maniera più accorta alcune riflessioni sui limiti di questa proposta. È recentemente uscito un libro di Andrea de Benedetti '
Così non schwa' edito da Einaudi in cui problematizza alcune questioni sull’uso specifico di simboli alternativi e sul meta-dibattito che questa discussione ha prodotto soprattutto in merito all’utilizzo del simbolo ə.
Il problema del sessismo della lingua comporta notevoli difficoltà per tutte quelle persone che hanno identità non binarie
L'indovinello del chirurgo
Come si è visto prima, l’uso dello ә cancella dalla lingua l’uso maschile di marca patriarcale. La questione di non utilizzare il maschile non è una questione di forma e chi sostiene che le femministe abbiano smesso di interessarsi delle questioni importanti della società dedicando parte della propria attenzione alla narrazione e al linguaggio sottovaluta la capacità che le nostre parole hanno di significare la realtà. Hanno inoltre dimenticato che quando si parla di questioni linguistiche si parla inevitabilmente di
potere. Infatti nel libro 'Femminili singolari' edito da effequ Vera Gheno apre la sua riflessione con un
indovinello: due persone, padre e figlio, stanno viaggiando in automobile. Ad un certo punto sono coinvolti in un grave incidente stradale. Il padre muore, il figlio subisce lesioni gravissime ma è vivo. Viene ricoverato in ospedale e portato immediatamente nella sala operatoria. Il chirurgo di turno, appena lo vede esclama: Non posso operarlo... questo è mio figlio! Come si spiega una simile situazione? Semplicemente, ascoltando una parola come ‘
chirurgo’ declinata al maschile tendiamo inevitabilmente a credere che il referente nella realtà sia una persona di sesso maschile quando invece la soluzione è che si tratta della
madre. Il linguaggio ha quindi un enorme potere: quello di intervenire sul modo in cui
interpretiamo la realtà e i ruoli di genere. De Benedetti parte dal presupposto che sia importante e fondamentale interrogarsi sulla capacità che ha il linguaggio di intervenire nel nostro immaginario collettivo e che un esempio come quello riportato da Gheno esemplifica vividamente l’ingerenza del linguaggio nella realtà. Il problema, dice De Benedetti, riguarda due aspetti: il primo è una questione strettamente linguistica e il secondo è la mancata trasversalità che questo dibattito ha assunto.
Il linguaggio ha il potere di intervenire sul modo in cui interpretiamo la realtà e i ruoli di genere
A chi crea problemi lo scwha
Per quanto riguarda l’aspetto linguistico gli stessi gruppi femministi e LGBTQI+ hanno sottolineato che si tratta di una
sperimentazione in atto e che come tale non è perfetta né definitiva. "Se l’obiettivo è decostruire il patriarcato non possiamo però scordarci che, tanto per dirne una,
lo schwa è abilista: crea
problemi ad anziani,
dislessici e stranieri" dice De Benedetti. Le persone che si accingono a imparare la lingua italiana, infatti, riscontrano una enorme difficoltà nell’acquisizione del genere grammaticale in quanto lo avvertono come del tutto arbitrario. Inoltre "è certamente invasivo. Cambiare la morfologia, introdurre un terzo genere grammaticale è davvero un’operazione che riguarda la lingua come sistema" conclude. Quello che però è dirimente in questo dibattito non è tanto l’essere ligi e devoti alla correttezza grammaticale quanto piuttosto mantenere viva la trasversalità di una simile proposta. "Trovo giusto e lodevole che si sia finalmente accesa la luce sull'importanza attiva del linguaggio nelle nostre vite", afferma De Benedetti . "Il problema però è che è rimasto un dibattito elitario. Tutta quanta la discussione gira intorno al problema della legittimazione: tutti vogliono rappresentare il basso e nessuno vuole identificarsi con il potere. Lo schwa, in particolare, ha assunto un ruolo nel meta-dibattito online diventando materia per pochi. É fondamentale che i parlanti possano abitare la propria lingua con agio e che le soggettività non binarie ricordino che
il linguaggio è un terreno di lotta. È anche altrettanto vero, però, che l’obiettivo è quello di non dimenticarsi della trasversalità di una simile discussione ed è indubbio che il dibattito non sia di certo diventato pop ma
materia di pochi spesso già sensibili al tema.
Per lo scrittore Andrea de Benedetti lo schwa è abilista, ovvero crea problemi ad anziani, dislessici e stranieri
Perché lo schwa è un problema che riguarda tuttә
Forse è necessario fare uno sforzo di comunicazione e far arrivare l’urgenza di una riflessione linguistica anche a persone che avvertono queste discussioni come accessorie". Se il linguaggio incide in maniera irriflessa in tutti i parlanti è allora necessario allargare questa consapevolezza a tutti e tutte senza che questa problematizzazione in atto non arrivi alla collettività come una
faccenda identitaria di pochi. Potrebbe allora avere senso allargare la riflessione con maggiori studi neuro-linguistici che dimostrino come il linguaggio non sia uno strumento neutro per guardare il mondo ma costituisca l’impalcatura della finestra attraverso cui lo guardiamo: rappresenta, insomma, una prospettiva. Se usare il maschile sovraesteso è un impedimento al nostro immaginario allora c’è la necessità di far capire che c’è una correlazione molto stretta tra le parole che usiamo e ciò che di conseguenza pensiamo essere possibile. Se da una parte è legittimo che alcune rivendicazioni arrivino dai margini di soggettività sottorappresentate, come ad esempio dalle
persone trans*, dall’altra è necessario leggere questa ostilità violenta che parte della comunità dimostra quando si parla della lingua. Certamente, a modo loro, chi non reputa importante discutere di desinenze esprime il loro agio di abitare una lingua che dà loro spazio di esistere e conferma quindi il presupposto che sottolinea chi questa lingua vorrebbe poterla abitare: la lingua è
una questione strettamente politica. Al contempo, forse, parte di questo astio è dettato dall’incapacità di vederne l’utilità. Se, come dice
bell hooks (la scrittrice non usa il maiuscolo per il suo nome,
nda), "le persone oppresse lottano con la lingua per riprendere possesso di sé, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole significano, sono azione, resistenza", al contempo per come si è strutturato oggi il dibattito ‘
schwa-si-o-no’ è diventato
materia di accademici. A conferma di questo basti vedere che di schwa non si parla nelle piazze ma nelle pubblicazioni universitarie o nelle comunicazioni dell’
Accademia della Crusca. Perché allora il linguaggio venga davvero percepito come politico c’è bisogno che ‘il basso’ e la collettività si riappropri della discussione e, al contempo, renda evidente la trasversalità del problema perché non venga avvertito solo come
una identità di pochi ma come un problema che
riguarda davvero tutt*.