Don Massimo Vacchetti e il suo "Villaggio della speranza", dove la porta è sempre aperta. C'è un'isola felice, nella zona Ovest della città di Bologna, in cui vivono
persone potenzialmente emarginate dalla società, o che comunque attraversano una fase delicata della propria esistenza. Un posto in cui
anziani, giovani coppie economicamente disagiate, famiglie molto numerose e migranti appena arrivati nel nostro Paese in cerca di una vita che possa definirsi tale, hanno trovato un
porto sicuro in cui approdare, per sempre o temporaneamente. Questo porto si chiama “
Villaggio della speranza”. Qui vige la regola - non imposta ma suggerita come modus vivendi - di lasciare sempre la
porta aperta della propria casa, una casa occupata senza dovere niente in cambio, a parte la propria disponibilità a condividere con gli altri abitanti un po' del proprio tempo, delle proprie capacità, della gentilezza di cui ogni essere umano ha sempre, comunque bisogno, nelle varie fasi della propria vita.
Villa Pallavicini vista dall'alto
"La porta è sempre aperta"
Don Massimo Vacchetti, 51 anni, presidente dal 2018 della
Fondazione Gesù Divino Operaio che si occupa di questa realtà unica nel suo genere, ci racconta cosa significa
l'esperienza di cohousing all'interno degli spazi di Villa Pallavicini, dove nasce il
Villaggio della speranza. “Il valore della porta aperta in un'epoca in cui la società ci ha fatto perdere la possibilità di conoscere persino il nostro vicino di casa, significa avere la possibilità di
salutare chi ti abita accanto, sapere che puoi bussare alla sua porta se hai bisogno di qualcosa, mettere al servizio degli altri il poco che si ha e che si sa fare, nell'ottica della condivisione e della circolazione virtuosa del bene" le parole di don Massimo. "Tutti, anche una persona molto anziana, torna ad essere utile all'interno della nostra comunità: poiché tutti gli abitanti del 'Villaggio della speranza' condividono il dono di aver ricevuto gratuitamente
una casa dove vivere, tutti sono predisposti a donare qualcosa al prossimo” dice ancora il religioso.
Può farci qualche esempio pratico? “Posso bussare alla porta del mio vicino non soltanto se mi manca il sale o la pasta, ma anche se mi sento solo, se sono malato e ho bisogno che qualcuno faccia la spesa al posto mio o che cucini da mangiare per me. Troverò sempre qualcuno che metterà a mia disposizione un po' del suo tempo, o magari la sua macchina se ho bisogno di un passaggio, o ancora le sue competenze se, per esempio, sa cucire ed io ho bisogno di un orlo ai pantaloni o sa fare giardinaggio ed io ho bisogno di tagliare l'erba del giardino. Nel 'Villaggio della speranza' tutti hanno le chiavi di casa di tutti. Chiunque diventa figlio o nipote degli altri. Gli anziani sono nonni dei bambini, le giovani coppie aiutano i più vecchi con l'uso della tecnologia ecc. Si condividono la vita e anche la fede, ma si rispetta chiunque. Infatti, su 126 nuclei familiari ospiti in altrettanti appartamenti, abbiamo anche tre famiglie musulmane. In trent'anni questo villaggio è diventato un luogo in cui accogliamo anche famiglie di stranieri, attualmente per esempio ospitiamo più di 25 nazionalità, seguendo il principio dell'integrazione intergenerazionale e del rispetto delle origini e delle tradizioni”.
Don Massimo Vacchetti (Facebook)
Quali sono i criteri di selezione per entrare a far parte della vostra comunità? “Non esistono criteri veri e propri: chiunque può fare domanda all'apposito centro di ascolto che prende in considerazione tutte le richieste. Dopo di che conduciamo un'indagine sulla famiglia e verifichiamo se ci sono appartamenti disponibili per ospitarla. Ovviamente, se vi è una casa libera in un contesto in cui i vicini sono tutti anziani, proviamo ad inserirvi una famiglia giovane. Studiamo tutte le situazioni di modo che, chi entra nel villaggio, possa essere di aiuto agli altri e condividere il proprio tempo, le proprie competenze (tant'è che chiedo sempre quali siano le abilità e gli hobby della persona che fa domanda). Certo, condividiamo anche la fede, seppure oggi il popolo italiano non sia più quello dei tempi di Don Giulio Salmi, il fondatore di questa meravigliosa esperienza di cohousing. All'interno del villaggio c'è una cappellina che ne è il cuore, dove si svolge l'adorazione eucaristica perpetua e gli abitanti fanno liberamente turni di un'ora per coprire tutto il giorno”.
L'inaugurazione del viale d'ingresso di Villa Pallavicini
La nascita del Villaggio
E quali erano invece i tempi di Don Giulio? Come è nato il Villaggio della speranza? “Dobbiamo andare indietro nel tempo fino al 1955, anno in cui Don Giulio Salmi ricevette in gestione dal cardinal Lercaro Villa Pallavicini, una bellissima dimora settecentesca immersa nel verde, ad Ovest della città, che i vecchi proprietari non erano riusciti a vendere e che nel corso della Seconda guerra mondiale era stata trasformata in un comando dei tedeschi. Fatto sta che alla fine la villa venne regalata alla Chiesa di Bologna, per poi essere assegnata a Don Giulio. Stiamo parlando di un prete particolarmente legato al mondo del lavoro (cosa che si può intuire anche dal nome stesso della Fondazione cui ha dato vita), che scelse di adibire questi spazi all'accoglienza dei ragazzi dell'Appennino bolognese, i quali nel dopo guerra scendevano in città per cercare lavoro. A questi giovanissimi ospiti, spesso orfani di guerra che dovevano aiutare la mamma e i fratelli piccoli, Don Giulio offre una casa, del cibo cucinato e, soprattutto, un padre, una famiglia con dei fratelli rappresentati dai coinquilini. Non ultimo un lavoro, attraverso le scuole professionali che fonda nei sotterranei della Villa e i rapporti che intrattiene con i giovani fondatori di aziende come la Ducati o la grande gelateria Carpegiani, che sorgono proprio in quel periodo e verso le quali Don Giulio indirizza i suoi ragazzi. Col passar del tempo riesce però ad offrire loro anche altro: una Polisportiva in cui allenarsi, comprando i terreni agricoli intorno alla villa e trasformandoli nel grande centro sportivo che sarà l'Antal Pallavicini. Ancora, pensando al fatto che i suoi ragazzi avessero diritto a vivere un'esperienza vacanziera, benché economicamente poco attrezzati, negli anni '60 Don Giulio compra delle case in varie località italiane. Ecco allora che tutta una generazione di bolognesi finisce a far vacanza in queste case della Fondazione”.
Uno scorcio del Villaggio
Oggi giorno è ancora così? “Fino agli anni '90 le cose procedono in questo modo, cambiano solo i ragazzi che, col passar del tempo, non vengono più solo dall'Appennino, ma dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Basilicata (oggi dall'Africa). Nel 1990 però Don Giulio ha un'altra intuizione geniale: osservando la società si rende conto che le persone anziane diventano sempre più sole, i figli ormai grandi cominciano a viaggiare, le famiglie perdono il carattere patriarcale e, in tempi ancora non sospetti, Don Giulio percepisce la nascita di questa condizione di solitudine come una piaga da sanare. Per lui è inaccettabile che chi ha vissuto una vita lavorando onestamente debba finire i suoi giorni in completa solitudine, magari persino senza pensione se si tratta di una casalinga. Allora fa costruire un villaggio, grazie al sostegno dell'allora cardinale Giacomo Biffi, con 126 appartamenti ceduti in comodato d'uso a famiglie con disagio economico, generando l'esperienza del tutto innovativa di cohousing di cui abbiamo parlato fino ad ora. È il 18 maggio 1991 quando il Villaggio viene inaugurato con le prime case, ed il 4 ottobre 1993 quando viene completato. Da allora ciascuna famiglia ha una casa privata, ma con una vocazione alla porta aperta e alla condivisione. Presto non solo gli anziani ma anche le famiglie giovani vengono accolte, perché i ragazzi che desiderano sposarsi ma non hanno i soldi per provvedere ad una casa hanno comunque diritto a realizzare il proprio sogno familiare”.
Tanti momenti di condivisione al Villaggio della speranza
Le regole del cohousing
Per quanto tempo le vostre famiglie hanno diritto ad occupare le case del villaggio? “Gli anziani possono occuparle fino alla fine dei loro giorni. Ai giovani, idealmente, proponiamo un accordo morale di otto anni, come se avessero stipulato con noi un contratto di locazione 4+4. Ma le categorie che Don Giulio pian piano definisce per il villaggio non sono solo anziani e giovani coppie, entreranno a far parte della nostra 'famiglia di famiglie' anche i nuclei particolarmente numerosi, che hanno dai cinque figli in su (abbiamo una famiglia che ne ha addirittura quattordici). In questo caso è chiaro che otto anni non basteranno a un padre che lavora per provvedere a tutti i figli, dunque chiaro che il comodato d'uso verrà protratto. Poi ci sono gli stranieri: inizialmente albanesi che cominciarono ad arrivare in Italia già dal 1991, poi i migranti di tutto il mondo. Un episodio molto bello è stato quello accaduto nel novembre del 2022, quando quegli stessi albanesi accolti nel'91 - che oggi si sono fatti strada in ambito professionale - costituendosi in associazione hanno voluto regalare al Villaggio della speranza l'asfalto del viale d'ingresso della lunghezza di 1 km, per un valore di 100.000 euro. Questo perché hanno sentito il bisogno di compensare quanto in passato avevano ricevuto”.
Un momento della rassegna culturale che prende il nome di “LIBeRI”
Nella vostra realtà avete promosso anche un'importante iniziativa culturale... “Esatto. Dall’estate del 2021 ospitiamo una rassegna culturale che prende il nome di 'LIBeRI', dall’entusiasmo di sentirci fuori dall’angosciosa faccenda del Covid e delle sue restrizioni. L’idea è quella di incontrare uomini e donne che ci aiutino a declinare il senso di essere liberi e di riaccendere la speranza del vivere. Ebbene, in quelle serate a cui hanno partecipato tra gli altri Mijhalovic, Cevoli, Cremonini, Prodi, Carron, migliaia di persone hanno potuto toccare con mano una realtà come la nostra, e lo stupore è stato unanime, sia per quanto riguarda la bellezza del posto, sia per l’ideale che la sostiene e di cui pochi hanno contezza... Il Villaggio, come ogni luogo, può essere teatro di incomprensioni, rivalità, piccoli soprusi, contese. Non è un 'paradiso terrestre'. Tuttavia, è un luogo così particolare che è desiderabile possa gemmare. Con l’Arcivescovo Matteo Zuppi ne ho accennato, visto il grande problema abitativo a Bologna, e spero che possa crescere presto un nuovo Villaggio della Speranza”.