Elizabeth Alexandra Mary, per tutti semplicemente
Elisabetta II,
Regina d’Inghilterra, è morta l’8 settembre scorso a
96 anni, dopo aver regnato per ben sette decenni. Eppure questa
morte, al di là della caratura del personaggio, si porta dietro una riflessione ulteriore. La storia e il carisma di figure come la sua dimostrano che i
“vecchietti” vanno ancora forte e mettono in risalto le contraddizioni della nostra società: da un lato pervasa di
ageismo e dall'altro scientemente guidata da persone anziane, alle quali vengono affidati compiti importantissimi. Questo anche grazie al benessere, ai progressi della medicina e al miglioramento complessivo della qualità di vita. Non si tratta di
gerontocrazia al potere ma della dimostrazione che le persone anche molto anziane sono una risorsa ideale del cui valore oggi non ci si rende davvero conto.
La regina Elisabetta II è stata vittima di ageismo (Instagram)
Esempio esportabile di longevità al femminile
“La
Regina Elisabetta rappresenta la migliore testimonianza di forza e resilienza in età avanzata – commenta
Francesco Landi, presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) –. Ha accompagnato e attraversato due secoli, ha vissuto la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, il terrorismo dell’Ira, superando anche tragiche esperienze personali. La sua vita è stata attraversata da crisi, difficoltà e veri e propri scandali, che ha saputo affrontare dando sempre prova di solidità e fermezza”. Un esempio di resilienza ma anche qualcosa di più. Un esempio esportabile di
longevità al femminile. “La famiglia, gli affetti, l’impegno sul lavoro, le passioni sono stati elementi fondamentali per lei fino alla fine – incalza Landi -. Fattori importanti a cui dobbiamo saper attingere per
tenerci vivi fino all’anzianità. Perché i geni li ereditiamo, la longevità ce la conquistiamo”.
Anche la Regina vittima di ageismo
Eppure nonostante Elisabetta II sia stata un esempio di
resilienza e forza, alla fine anche lei è stata vittima di ageismo. “Da anni impazzano meme e post sulla sua immortalità – dice
Giulia Goldin, psicologa dell’invecchiamento e ricercatrice all’Università di Padova -. Ironizzare sulla sua figura è esplicativo del fatto che l’opinione pubblica non si capacita della realtà dei fatti: cioè che
una donna quasi centenaria sia riuscita a fare così tanto". E spiega: "E’ stata una forma di ageismo anche l’accanirsi nella ricerca spasmodica, attraverso foto e video, di indizi di
deterioramento sulle mani della Regina per cercare cause e avvalorare che anziano uguale malattia”.
La ricerca di indizi di deterioramento sulle mani della Regina sono una forma di ageismo
Certo è che questo atteggiamento culturale mondiale, in cui invecchiare è una iattura, ha delle conseguenze terribili. Tanto che nel 2021 l’
Organizzazione Mondiale della Sanità ha attivato una campagna di sensibilizzazione sull’ageismo, anche a seguito del Covid. Nel report dell’Oms, infatti, si dice che le persone che vengono quotidianamente esposte a queste forme di pregiudizi vivono in media
7 anni in meno. “Gli stereotipi legati all’invecchiamento sono tanti spiega l’esperta -. L’ageismo cronicizza l’invecchiamento perché porta
isolamento sociale e impatta fortemente la motivazione. Ovvero, si instaura il cosiddetto
fenomeno della minaccia, per cui la persona consapevole degli stereotipi relativi al proprio gruppo di appartenenza ha paura di mettere in atto comportamenti che possano confermare questi stereotipi. Per cui si ritira, non esercita più certe competenze e va a confermare lo stereotipo.
L’anziano non si mette più in gioco, non esercita la memoria e la perde”.
Come si è passati dal rispetto alla discriminazione verso gli anziani?
“L’ageismo è una conseguenza dei
cambiamenti demografici e sociali avvenuti nel corso del 900, quindi è un fenomeno recente – spiega
Giulia Goldin - . Questo un po’ perché gli anziani sono cambiati. Prima non esistevano i longevi e neanche le cronicità che ci sono adesso. E poi è cambiato anche il loro ruolo. Un tempo gli
anziani erano i saggi, i detentori della conoscenza. Adesso tutti si affidano ai media e internet. E così hanno perso la loro veste di fonte di conoscenza all’interno della famiglia e della comunità in generale. La società di oggi - continua - punta tutto sulla prestazione. Per cui la vecchiaia, da processo naturale, è diventato un problema sociale”. Un fenomeno moderno e trasversale che però ancora non viene pienamente riconosciuto. Il termine stesso ageismo è una italianizzazione del termine inglese. Questo
fenomeno sociale e culturale è capace di assumere diverse forme nel corso della vita. Le famiglie non trovano più il giusto tempo per
coltivare le relazioni con i propri anziani. E questo ha un impatto negativo sulla loro qualità di vita, provoca isolamento e conseguente mortalità anticipata. “
L’ageismo è una cosa grave, specie quello passivo. Un nipote che non tiene alla salute del proprio nonno è ageismo” spiega Francesco Landi, presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria.
Gli anziani, da rispettati a discriminati
Nelle zone rurali si vive meglio e più a lungo
Realtà drammatiche, queste, presenti soprattutto nei grandi
centri urbani. Dedalo di case e strade in cui spesso gli anziani si perdono o si dimenticano. Invece c’è bisogno di città che li sostengano e li rendano ancora partecipi del futuro della comunità. Così come avviene nei paesi a
vocazione contadina, nei piccoli centri e in alcune zone del mondo dove
si vive meglio e più a lungo. “Le grandi città soffrono molto di più questo problema. Nelle zone rurali c’è ancora possibilità di avere rapporti umani – racconta
Francesco Landi, presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) -. Basti pensare alle
cinque aree in cui c’è maggiore concentrazione di centenari, le famose zone blu: Okinawa (Giappone), Sardegna (Italia), Nicoya (Costarica), Icaria (Grecia) e Loma Linda (California). Tutte a vocazione rurale”. In questa zone, certo, gli anziani sono maggiormente inclusi all’interno della società e anche per questo vivono di più. “A patto, però, che il
livello di scolarità sia buono – dice la psicologa Giulia Goldin - secondo studi recenti, infatti, la poca scolarità è un fattore di rischio per quello che riguarda il
declino cognitivo”. Eppure basterebbe ricordarsi che i nostri atteggiamenti discriminatori creano un sistema di cui tutti saremo vittime, per fare un po’ di attenzione in più.