L'affronto diplomatico che ha scosso l'opinione pubblica internazionale, ormai noto come
sofagate, è solo la punta dell'iceberg di un evidente problema che la Turchia, guidata dal presidente
Recep Tayyip Erdogan, ha con le donne. Quando abbiamo letto l'umiliazione e lo sconcerto sul volto della presidente europea, Ursula Von Der Leyen, ci siamo chiesti a quale punto sia la questione femminile nel Paese. A farci la fotografia della situazione ci pensano i numeri:
300 donne uccise dal marito o compagno nel 2020 e già
84 nei primi mesi del 2021. E in 10 anni i casi sono triplicati. Alle molte incarcerate per motivi politici, specie tra le cittadine curde, negli interrogatori non sono stati risparmiate torture e violenza. Anche per questo appare a dir poco agghiacciante la decisione del presidente
Erdogan di ritirare il Paese dal "protocollo di Istanbul" siglato nel 2011, conosciuto come
Convenzione internazionale sui diritti delle donne e degli omosessuali.
Le manifestazioni e le donne che combattono
Turca di etnia curda,
Zelal è un'imprenditrice che vive in Italia da oltre trent'anni, con i genitori in patria. Per lei il colpo è stato pesante. "Era l'
unico strumento giuridico internazionale che proteggeva le donne contro qualsiasi forma di violenza – dice – In Turchia c'era una norma secondo quale se un uomo violenta una bambina, ma poi la sposa, viene assolto. Con la Convenzione, chi commetteva un atto del genere
violava i diritti umani. Lo stesso valeva per le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, le violenze fisiche e psicologiche, lo stupro, lo stalking, le molestie e la tortura. Ora invece tutto ciò
sfuggirà al controllo internazionale". Zelal ricorda che per il governo di Erdogan il protocollo è decaduto "in quanto contrario alle
norme dell'Islam, poiché incoraggerebbe il divorzio e l'omosessualità". Ma è palese come la svolta teocratica finisca per legittimare ogni forma di violenza domestica. "Per fortuna in Turchia sono già scattate molte
manifestazioni spontanee di piazza contro questa scelta. E anche se Erdogan ha già firmato il decreto, mi resta la speranza che si tratti di una provocazione, prima o poi annullata. Quel che mi fa male è vedere le donne del partito di Erdogan festeggiare in piazza. Da non credere".
La resistenza delle intellettuali
Anche il foro degli
avvocati di Ankara, nonostante i rischi di pesantissime ritorsioni, ha presentato ricorso contro la decisione in base al quale il ritiro unilaterale sarebbe
contrario alla Costituzione e costituirebbe un'appropriazione indebita di funzioni da parte dello stesso presidente. E pensare che nel 2012, la Turchia era stato
il primo Paese a ratificare il documento, aperto alla firma l'anno precedente. Ma sono molteplici, ovunque, le voci di protesta contro la svolta. Anche a Roma il Movimento delle
donne libere curde (Tja) ha tenuto giovedì 25 marzo un sit-in di protesta davanti all’ambasciata della Turchia. “È una svolta che mette in pericolo di vita tutte le donne del mio Paese - denuncia la
scrittrice turca Esmahan Aykol, nota per i gialli pubblicati in Italia da Sellerio - e dimostra come il
regime sia non solo misogino, ma anche omofobo. Oggi la Turchia non è un Paese per donne, né per le minoranze sessuali. Una grave
battuta d'arresto nella lotta per la protezione dei diritti, proprio quando il femminicidio e la violenza contro le donne sono aumentati negli ultimi dieci anni".
Le reazioni politiche
Recep Tayyip Erdoğan, presidente della Turchia, ha firmato il decreto di uscita del suo paese dal protocollo di Istanbul. Per il governo turco sarebbe "contrario alle norme dell'Islam"
Sulla decisione, che presto potrebbe essere presa anche dalla Polonia, era intervenuto anche il
premier Draghi, noto per la cautela nelle prese di posizione: “Ho esaminato con Erdogan l’importanza di evitare iniziative divisive e l’
esigenza di rispettare i diritti umani. L’abbandono turco della Convenzione rappresenta un grave passo indietro. La protezione delle donne dalla violenza, ma in generale la difesa dei diritti umani - ha sottolineato Draghi - sono un valore fondamentale, identitario per l’Unione europea”. La
Turchia si allontana insomma sempre più dall'Occidente. In materia di minoranze e discriminazioni risulta oltretutto evidente il nesso tra il livello della condizione femminile e la
repressione della minoranza curda, 20 milioni in un Paese da 82 milioni di abitanti. Negli ultimi 30 anni la Turchia ha chiuso cinque partiti politici filo-curdi. L’ultimo a metà di marzo: l’Hdp, che aveva stravinto nell'Est del Paese, terza forza in Parlamento per numero di rappresentanti, con 12 milioni di voti all'attivo. L'accusa è sempre la stessa: un presunto agire “
contro l’integrità indivisibile dello Stato come nazione”.
La battaglia interna contro i curdi
Ed è ancora Zelal a ricordare come il
ruolo fondamentale della donna nella società curda sia sempre stato malvisto dall'Islam di Stato. La società curda è
matriarcale. Con gli uomini al fronte, è toccato spesso alle donne gestire non solo l’ambito della famiglia ma anche l’amministrazione delle città e della cosa pubblica. Il più vistoso esempio in materia è stato il
Rojava, l’enclave curda in terra siriana, straordinario test di applicazione dei
diritti delle donne in Medio Oriente. Un'area nella Siria del nord-est dove le donne, tra economia sociale, eguaglianza di genere, etnia, confessione e democrazia diretta, per anni avevano autogestito tutti i compiti pubblici in quartieri, villaggi e città. Una realtà
stroncata nel sangue proprio da Erdogan un anno fa, con una gigantesca operazione militare e il pretesto di
cancellare un potenziale stato oltre la frontiera. I curdi del Rojava erano stati peraltro l’unica forza militare sul campo a
sconfiggere le bande dell'Isis e a cacciarle dalla loro capitale Raqqa, dove 500mila abitanti vivevano da anni nel terrore. Ancora, avevano liberato i loro “cugini“
Yazidi del monte Sinjar, una minoranza religiosa curda ai confini tra Siria e Iraq, contro cui nel 2015 si era scatenata la furia degli
integralisti islamici, che li avevano sottomessi, rapendo e stuprando le loro giovani, ridotte a
schiave sessuali dei capi militari.
Stupri e rapimenti: le ragazze che cercano di tornare a vivere
Nei primi di febbraio del 2020, un gruppo di
ragazze yazide ormai libere, di età compresa tra i 15 e i 22 anni, è partito alla volta del Regno Unito, esportando un
coro che celebra e custodisce la cultura e la storia yazidi. Il gruppo era accomunato dagli orrori commessi contro il loro popolo dall’Isis: metà delle ragazze, infatti, era stata
rapita e stuprata dai militanti durante l’assedio. La musica ha avuto un
ruolo terapeutico per queste ragazze, aiutandole a tornare alla normalità e a riscoprire la propria identità. Il progetto corale è stato portato avanti dalla
fondazione inglese Amar e dal violinista Micheal Bochmann, impegnati a
preservare la musica di questa comunità per le generazioni future. Un esempio di
lieto fine, che ancora una volta passa dai ragazzi.