Vladimir Luxuria: "Fino a trentuno anni fa l'omosessualità era considerata una malattia da curare. Ora va difesa dall'odio"

di ELISA CAPOBIANCO
17 maggio 2021
Luxuria-Apertura

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“Un tempo quelli come me si dovevano curare”. Gli altri – i giusti, i normali – li osservavano da lontano come esistenze non degne di essere vissute, macchie che sporcavano la linea retta e linda di un mondo che catalogava l’omosessualità tra le malattie mentali, addirittura una delle peggiori. “Curare o nascondere, sì”. Vladimir Luxuria lo scandisce lentamente lasciando increspare la voce di un dolore antico. Ma quel “tempo” non è poi così lontano. E ogni violenza – fisica o verbale, ché alla fine le cicatrici comunque restano –, ogni offesa, ogni discriminazione per strada o sulla piazza virtuale dove si scatenano gli haters da tastiera (che poi sono giovani o adulti in carne e ossa) ci ricorda che basta davvero poco per balzare indietro. L’onda lunga dell’odio minaccia quotidianamente le terre così duramente conquistate, rischiando di scavare sotto la costa della nostra coscienza. L’attivista, scrittrice ed ex parlamentare, nata a Foggia nel 1965 come Vladimiro Guadagno, lo sa bene. La battaglia per i diritti civili delle minoranze, anzi di “tutte le minoranze”, è stata il faro di una carriera tra spettacolo e politica. Lei, prima transgender a entrare in un Parlamento europeo, è diventata un simbolo della libertà arcobaleno.

Vladimir Luxuria con Alessandro Zan

Vladimir, il 17 maggio ricorre la Giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Qual è il senso dell’appuntamento e con quale stato d’animo ci arriviamo? “Beh, si ricorda una data importante, sempre. Uno spartiacque. Perché fino al 16 maggio 1990 l’omosessualità era considerata una malattia da curare, inserita dall’Organizzazione mondiale della sanità nel manuale dei disturbi mentali. Il giorno dopo i gay si sono svegliati ‘guariti’… Il 17 maggio di trentuno anni fa, infatti, l’Oms l’ha depennata dall’elenco definendola per la prima volta ‘una variante naturale del comportamento umano’. Nessuno da allora dovrebbe più mettersi in testa di curare gli omosessuali. Nella realtà invece c’è ancora chi pensa si tratti di una malattia e, in alcuni Paesi del mondo, ci sono ancora psicologi – che non dovrebbero chiamarsi tali – che teorizzano le terapie riparative con sedute psicologiche o psichiatriche correttive. Una pratica, quest’ultima, che l’Italia ha fermamente condannato. Insomma, non siamo lavatrici rotte da aggiustare. Andiamo bene così come siamo. Deve essere chiaro a tutti”. Il verbo curare arriva dritto allo stomaco, risuona così sinistro associato all’omosessualità. Forse anche perché nella coscienza collettiva qualcosa è cambiato? “Eppure parliamo di pochi decenni fa. Basti pensare che negli anni Settanta si usava ancora l’elettroshock. I genitori che si accorgevano dell’orientamento omosessuale del figlio, lo portavano da questi furfanti. Il sistema era brutale: scariche elettriche alla visione di immagini omoerotiche affinché venissero associate al dolore. Fino agli anni Cinquanta, del resto, nel manicomio di Aversa venivano ricoverate persone come me. Eravamo da rinchiudere. In tanti modi hanno cercato di curarci nel corso della storia. Oggi forse bisognerebbe ribaltare la prospettiva e dire che è necessario curare gli omofobi. Sono stati fatti progressi? Diciamo che l’omosessualità non è più argomento tabù. Fino a poco tempo fa se ne discuteva soltanto per stigmatizzarla o per trattarla in modo morboso. Le nuove generazioni adesso hanno un approccio più rilassato, ma purtroppo episodi di omofobia continuano ad accadere e tanti non vengono neppure denunciati. L’odio si diffonde anche sui social. Il bullismo di tipo omofobo è una realtà che fa perdere a molti adolescenti la voglia di studiare se non addirittura di vivere. Come dire, le cose stanno sicuramente migliorando, ma è necessario ancora lottare per fare in modo che nessuno si senta inferiore al prossimo per una qualità neutra come la sessualità. Credo che la proposta del Ddl Zan vada in questa direzione”. Il Ddl Zan appunto. L’Italia e gli italiani sono pronti? “È la politica innanzitutto a dover essere pronta ad affrontare temi etici, tra cui la lotta all’omofobia. Alla base c’è la difesa dell’integrità fisica e morale di ogni essere umano, una necessità in cui io credo profondamente. L’integrità fisica e morale delle donne, innanzitutto, spesso vittime di odio, molestie; dei diversamente abili che non devono essere ‘impediti’ da barriere architettoniche e mentali; delle persone gay, lesbiche e transessuali che non devono più temere di camminare mano nella mano, di mostrare quello che sono. Non dobbiamo più vivere nell’angoscia di incrociare qualcuno che, senza neppure conoscere il tuo nome, si senta in diritto di insultarti e di picchiarti semplicemente per una manifestazione di affetto o di identità. Perché è vero che esiste la libertà di opinione, prevista dall’Articolo 21, ma la libertà di opinione non deve ledere la dignità altrui”.  

Problema discriminazione: quanto pesa l’educazione in famiglia? “Molto spesso i ragazzini ripetono quanto sentono e vedono dire e fare dagli adulti. Ripetono le parole pronunciate a casa, magari banalmente a tavola… Quando si parla di certi temi in televisione ci sono genitori, non la maggior parte per fortuna perché molti invece educano al rispetto della diversità, che usano dei termini dispregiativi. Ecco dunque che la scuola deve assumersi il compito di affrontare il tema dell’educazione affettiva, sessuale, dell’educazione al rispetto oltre alle misure di contrasto a ogni tipo di bullismo. Tra i banchi servono una corretta informazione e formazione. Non si può pensare di proteggere i bambini non parlando di argomenti così importanti”.

  Lei è stata recentemente vittima di un episodio di discriminazione? “Dal vivo prima della pandemia, mi è capitato un tentativo di scherno. Sono entrata in una tabaccheria e mi sono messa in fila con altre persone. Una donna riconoscendomi ha iniziato ad agitarsi e se n’è uscita dicendo a tutti ‘Fate passare, così mi sbrigo subito questo signore…’. Io, ricorrendo alla calma e all’autoironia, le ho risposto dicendo che sono una signora e che quando avrebbe visto il Signore sarebbe stato Lui a giudicarla anche per la cattiveria che stava dimostrando in quel momento. Abitualmente invece l’offesa corre sui social”.  

Luxuria al trucco prima di uno spettacolo

Vladimir, facciamo un passo indietro nella sua storia personale. Quando ha avuto inizio il percorso verso la consapevolezza, verso l’affermazione della sua vera identità? “Il problema non è stato tanto scoprire me stessa, capire che la mia identità di genere non corrispondeva al mio sesso anagrafico. Il problema si è posto quando ho capito che questa cosa era considerata sbagliata, abominevole, contro natura. Ha fatto male notare che ogni mia espressione di femminilità, ogni gesto, movimento veniva condannato da tutti. Da mio padre, dai sacerdoti, dai miei amici. La reazione mi ha spinto a interiorizzare, nei primi anni, un immenso senso di colpa. Mi sentivo sbagliata. Dovevo correggermi e cercavo di farlo da sola, di farmi andare bene ciò che sentivo che non mi andava bene. Ad esempio, facendomi una finta fidanzatina, cercando di sentirmi maschio, cercando di distrarmi da quella fanciulla che stava dentro di me e che chiedeva di essere liberata. È stato un percorso lunghissimo, fatto sicuramente anche di momenti bui. Ma a 16 anni ho deciso che dovevo scegliere tra gli altri e me: ho scelto me. L’omosessualità non è un capriccio, una voglia di trasgressione. È qualcosa di molto profondo, innato e irrinunciabile. Ho iniziato questo cammino in solitudine, ma andando avanti con la mia testardaggine man mano ho cominciato a sentirmi meno sola ritrovando anche persone che mi avevano allontanato prima, inclusa la mia famiglia. E oggi mi sento in buona compagnia (sorride, ndr). Sento di avere dalla mia parte tantissima gente”.

Vladimir Luxuria in aula a Montecitorio

 

Non deve essere stato facile: da ragazzina ha subito atti di bullismo per la sua diversità. Ci racconti. “Ricordo a scuola di essere stata più volte rimproverata dagli insegnanti e a casa perché non conservavo bene quaderni e libri. Ebbene, io non potevo, non riuscivo a spiegare al maestro, a mia mamma che strappavo le pagine perché sopra qualcuno ci aveva scritto la parola ‘ricchione’. Cercavo di cancellarla, facendo a pezzi la carta. Ma rimaneva impressa nella mia anima come una lettera scarlatta. Succedeva tutti i giorni a scuola. Ricordo alle medie le risatine all’appello quando veniva letto il mio nome… In palestra, dove i compagni dovevano dimostrare la loro virilità soprattutto nelle classi allora composte solo da maschietti, mi facevano vedere i sorci verdi… Trovavo la pipì nelle scarpe che lasciavo nello spogliatoio, mi scrivevano sul muro frasi offensive, mi ricattavano chiedendomi dei soldi per smettere di sfottere. Io gli davo la mia paghetta sperando che l’incubo finisse, ma ovviamente quel denaro non bastava mai! Sono sopravvissuta con grande forza d’animo e magari anche grazie alla mia adorata nonna che mi ha protetta da lassù”.

  E come si è salvata da questa violenza? “Vivevo di fantasia. Ad esempio mi facevo prestare un vestito da mia sorella e di nascosto in camera me lo provavo immaginando il mio mondo ideale, un mondo in cui non avrei dovuto nascondermi. Come ho fatto a superare le avversità? Paradossalmente i momenti determinanti nella mia affermazione sono stati i peggiori, i più neri. Tutte le volte che venivo inghiottita dal vortice della depressione, dalla perdita della fiducia in me stessa riuscivo a recuperare un grande slancio per ripartire più forte di prima. Tutto stava nel riuscire a sopravvivere, a risalire, a riprendere aria. In più occasioni, però, ho temuto di non farcela e mi stordivo. Fino ai 20 anni è stato così, poi le cose hanno preso una piega decisamente diversa. Non mi arrendevo alla sconfitta, non mi arrendevo all’idea di seppellirmi. Alla fine mi scoprivo sempre capace di ritrovare l’energia dentro di me per riemergere. Intanto il mondo intorno cominciava lentamente a cambiare. Mi ha aiutato vedere le prime manifestazioni, nascere le prime associazioni gay. Mi sono sentita meglio quando ho cominciato a leggere, a documentarmi sull’argomento. Andavo a cercare i libri, non era così banale. Oggi tutti i giornali trattano di omofobia, allora no. Ho cominciato a pensare che non solo non ero sbagliata io, ma che forse potevo fare qualcosa per correggere ciò che avevano di sbagliato gli altri. Sono iniziate così le mie prime lotte, le mie prime iniziative. Insomma, non mi sentivo soltanto una sopravvissuta. Ero diventata una guerriera. È stato un po’ un vaccino che mi ha permesso di sviluppare dei begli anticorpi all’ignoranza, alla stupidaggine”. Determinante il trasferimento da Foggia a Roma? “In realtà la mia prima ‘mamma’ è stata Milano. A 18 anni là ho scoperto i primi locali gay e là ho capito che si può davvero essere quello che siamo. Poi a 20 il trasferimento a Roma, la mia carriera universitaria e la partecipazione al Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, infine gli eventi e i gay pride”.  

Il gay pride

Passando per la direzione artistica del famoso locale romano Muccassassina che è diventato il luogo di incontro tra il mondo gay e quello etero: il fenomeno socio-culturale degli anni Novanta. Insomma, ne ha combinate di tutti i colori… “Sì, di tutti i colori arcobaleno (sorride, ndr). I miei dieci anni di direzione artistica al Muccassassina sono stati un termometro sociale. È stato impressionante, una grande palestra per me. Vedere, nei primi anni, che le persone entravano con discrezione, si fiondavano dentro per non farsi vedere fuori e gli stessi vip non volevano i fotografi. Poi è diventato un locale di tendenza, frequentarlo faceva quasi curriculum. Alla fine i personaggi famosi, anche star internazionali, fremevano per esserci ed essere notati. Ci sono passati davvero tutti. Oltre agli spettacoli facevamo cultura: mettevamo banchetti informativi dedicati al sesso sicuro, ad esempio, lanciavamo campagne di promozione per il teatro e all’una di notte sul palco c’era un discorso a tema socio-politico. Tanto divertimento sì, ma se in pista i corpi ballavano anche le menti dovevano muoversi”. E poi l’orgoglio di aver organizzato nel 1994 il primo Gay pride ufficiale in Italia insieme a Imma Battaglia: un oceano di persone si riversò nelle strade di Roma per rivendicare la propria esistenza e i propri diritti. Che cosa ricorda? “Ricordo l’emozione nel vedere quel serpentone sul Lungotevere: 20mila persone con lo stesso sogno. Non finirò mai di ringraziare anche quei volti noti – Franca Valeri, l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli, Simona Rizzo, Ricky Tognazzi, Maria Grazia Cucinotta – che salirono sul nostro palco quando ancora non era di moda, anzi. Fu commovente, la dimostrazione che con la determinazione è possibile arrivare ovunque. La determinazione mia, degli attivisti e dei volontari del Circolo Mario Mieli aveva prodotto qualcosa di straordinario. Avevamo paura che la gente non trovasse il coraggio di venire e invece... Abbiamo organizzato quel primo pride davvero con una scarpa e una ciabatta, come si dice a Roma. Pochi soldi, le istituzioni molto tiepide, gli oppositori di estrema destra, i politici che ci accusavano di ostentare perché ‘Sì, va bene la faccenda dei diritti. Ma le vostre cose fatele a casa senza dare troppo nell’occhio. Son cose vostre private, in pubblico meglio star buoni…’ e via così. Insomma, non è stato facile. Anche oggi, secondo me, c’è qualcosa che molti politici contrari al Ddl Zan non ammettono. Per qualcuno di loro, in fondo, questi insulti, queste aggressioni omofobe sono un freno sociale a un’eccessiva liberalizzazione dell’omosessualità. Alla fine, insomma, fa quasi comodo ogni tanto per tenerci a bada. Della serie ‘Siete gay, ma non fate vedere che siete gay. Evitate di darvi il bacetto, di andare mano nella mano per strada…’. Nel loro pensiero, infatti, una visione positiva dell’omosessualità potrebbe spingere i loro figli, i loro nipoti a diventare gay. È questa l’assurdità”. La sua battaglia in piazza è diventata poi anche un impegno politico che ha raggiunto l’apice nel 2006 quando è stata eletta deputata nelle fila di Rifondazione comunista: prima transgender a entrare nel Parlamento italiano, un record anche europeo. Ha dovuto lottare contro i pregiudizi dei colleghi? Crede di aver portato un cambiamento in politica? “Ricordo la paura di non essere all’altezza e la consapevolezza di avere i riflettori addosso, altro che Grande fratello (ride, ndr). Il primo giorno in Parlamento alzai lo sguardo e vidi tutti gli obiettivi dei fotografi puntati su di me. Sicuramente in quel periodo ho dovuto sopportare anche lo sguardo di disprezzo di taluni, però tanti poi si sono ricreduti. Soprattutto i colleghi della Commissione cultura dove abbiamo lavorato a stretto contatto. Chissà, alla mia elezione, sicuramente qualcuno avrà temuto che entrasse in assemblea un fenomeno da baraccone, a imbastire un circo… In più sentivo l’orgoglio e la responsabilità di rappresentare un mondo che fino ad allora non aveva avuto una voce, rappresentavo una comunità che riponeva in me delle speranze. Se la mia presenza ha cambiato la politica? Seh, no. Magari! Secondo me la politica peggiora sempre di più. Va a slogan, si analizzano i sondaggi e poi si decide il proprio pensiero, si usa un linguaggio sempre più scurrile e tante altre assurdità. Ora in Parlamento non c’è più una trans, ma ci sono tanti trasformisti”.

Vladimir Luxuria alla Camera con Armando Cossutta

Un messaggio per gli italiani, per i più giovani o forse per i più vecchi dato che non si sa davvero chi ne abbia maggiormente bisogno… “Concentriamoci sui problemi veri, sulle difficoltà vere. Cerchiamo di diventare più solidali come popolo. Non si è fratelli o sorelle d’Italia soltanto per l’inno, una bandiera, per il nome di un partito o quando si giocano i Mondiali. Si è fratelli e sorelle d’Italia quando si è solidali per davvero. Bisogna rompere certi schemi di pensiero, della serie ‘Non pago io le tasse, pagheranno più gli altri’ oppure ‘Frego il prossimo perché sono più furbo’. Un popolo solidale dovrebbe essere anche un popolo che non discrimina”.

Una parola invece per quelle persone che non hanno trovato il coraggio di vivere per quel che sono, manifestando la propria identità senza la paura di essere giudicate. “Voglio dire loro che fanno ancora in tempo, che non è mai troppo tardi perché è doloroso dover nascondere una parte così importante della tua vita, della tua personalità. Non giudico chi non ci riesce perché oggettivamente ci sono dei contesti in cui è ancora davvero molto difficile, però mi sento comunque di invogliarli”. L’appello a combattere l’ipocrisia è anche il messaggio che canta forte nel suo primo singolo ‘King Kong’. Una canzone contro i finti santarellini e i perbenisti? “Sì, una canzone dedicata a chi ha il coraggio di manifestare le proprie idee. Il mostro non è King Kong. Il mostro si trova dentro alcune persone che pensano di avere il diritto il diritto di adombrare gli altri per il fatto di essere bianchi, italiani o etero”.