Facciamocene una ragione: se anche il presidente Macron si è scomodato per una serie TV, la faccenda non solo è seria, ma è anche di portata politica mondiale. L’importanza del fenomeno culturale della serialità agli addetti ai lavori era abbastanza chiara da tempo. Solo nell’ultimo periodo, però, il tema sta diventando trasversale, tanto da fare capolino addirittura nel dibattito generalista. Fino a qualche anno fa vissute come un semplice prodotto di intrattenimento, le serie si sono trasformate in strumenti di riflessione sociale attraverso cui plasmare - avete letto bene, sì, plasmare - opinioni e influenzare azioni. L’affaire Emily in Paris ne è la dimostrazione.
Se avete perso le precedenti puntate e non avete la minima idea di cosa si stia parlando, vi serve un breve recap. Iniziamo dal principio. L’ultima stagione di Emily in Paris ha visto l’eclettica e talentuosa comunicatrice americana prendere armi, bagagli e smartphone e trasferirsi da Parigi a Roma. Una fuga d’amore che, ben presto, si è trasformata in una nuova occasione lavorativa da prendere al volo. Un fulmine a ciel sereno per la Francia a cui Emmanuel Macron non ha tardato a cercare rimedio. “Emily deve restare a Parigi, a Roma non ha senso, lotteremo duramente”, ha tuonato dall’Eliseo. Del resto, la famiglia presidenziale nel recente passato non si era dimostrata affatto indifferente a uno dei prodotti Netflix più di successo degli ultimi tempi. La stessa Brigitte Macron è apparsa per qualche secondo nell’ultima - e incriminata - stagione, riempiendo d’orgoglio il marito e tenendo alta la bandiera delle istituzioni sempre più vicine alla gente.
Da dove nasce questo braccio di ferro
Quella macroniana, però, è una crociata che va ben oltre le dinamiche affettive. Emily in Paris ha portato le strade di Parigi nel mondo, dando all’immaginario collettivo di una delle città più belle del mondo una cornice contemporanea, attrattiva anche per i giovani e giovanissimi e dannatamente comunicativa.
Rinunciare a tutto questo sarebbe non solo un rischio, quanto piuttosto una catastrofe annunciata. Una pubblicità così pop - nel senso più positivo possibile del termine - dove la ritroverebbe la città della Senna? Un dubbio legittimo che, al di là della questione strettamente legata al marketing territoriale, spalanca le porte a una riflessione ancora troppo poco esplorata sull’immenso mondo della serialità. Non sarebbe forse il caso di interrogarsi su quale sia il vero ruolo delle produzioni in serie nella narrazione globale? Perché non approfittare della loro risonanza per diffondere messaggi sociali e culturali più profondi, piuttosto che limitarsi a sfruttarle a favore di marketing?
Il ruolo delle serie tv
Quello della serialità è un linguaggio con una potenza di fuoco che va ben oltre la semplice logica commerciale. Piuttosto, è un medium capace di educare, sensibilizzare e, perché no, mobilitare le masse. Del resto, sociologia dei mass media docet: le narrazioni seriali possono farsi specchio del mondo, evidenziando disuguaglianze, sfide, aspirazioni e chi più ne ha più ne metta. E, inutile negarlo, in un mondo in cui le interazioni sociali sono sempre più mediate da uno schermo, quando ci si imbatte in uno strumento capace di fungere da catalizzatore per il cambiamento sociale, affrontando temi come l'uguaglianza di genere, i diritti LGBTQ+, le sfide migratorie, le questioni ambientali e parecchio oltre, farselo scivolare via dalle mani sarebbe quantomeno ingenuo.
Una cosa è certa: affinché questa opportunità non venga sprecata, è fondamentale che i produttori e i creatori di contenuti siano consapevoli della loro responsabilità. Le serie devono essere concepite non più solo come prodotti da vendere, ma come veicoli di messaggi sociali. Se è vero com'è vero che una narrativa ben costruita può stimolare il dialogo e la riflessione critica, contribuendo a creare una società più coesa e informata, è altrettanto vero che per farlo servono conoscenza, consapevolezza, approfondimento e studio. E qui, come per magia, entra in gioco il solito vecchio tema delle risorse. Per mettere in campo una simile operazione è fondamentale un maggiore investimento nel settore: più fondi per il mondo dello spettacolo significano più risorse per la ricerca, la scrittura e la produzione di storie capaci di viaggiare all’unisono con una società sempre più complessa attraverso un linguaggio giusto, accessibile e positivo.
Che le storie siano essenziali per la nostra identità collettiva è cosa nota. Quando una serie affronta argomenti rilevanti, essa non solo intrattiene, ma educa e, in molti casi, sfida le norme sociali. La grande responsabilità di chi crea contenuti è di andare oltre il sensazionalismo e il facile intrattenimento, puntando a storie che abbiano un impatto duraturo sulla società.
Se, dunque, Macron può permettersi di esprimere il proprio disappunto per un semplice cambio di sceneggiatura, allora perché non approfittare di questo input per aprire il dibattito sul tema delle produzioni seriali come fari di cambiamento sociale?
Tuttavia, c'è una riflessione amara da fare: la GenZ è sempre più attratta da contenuti rapidi e facilmente digeribili come quelli offerti da YouTube e TikTok. Il rischio che si allontani da narrazioni più articolate è tangibile. Affrontare anche questa sfida sarà la vera impresa, rendendo le storie non solo socialmente utili, ma anche coinvolgenti agli occhi di un pubblico sempre meno avvezzo al linguaggio del cinema e della serialità. Ne riparleremo.