
La Niña del Sud (foto di Gesualdo Lanza)
Nella sociolinguistica il dialetto è una lingua socialmente subordinata a una politicamente dominante. Cantare in dialetto, dunque, significa compiere una scelta politica precisa, significa prendere l’idioma del margine e renderlo visibile, conferirgli valenza e dignità culturale. Nel nostro paese, sono molti i cantanti e le cantanti che del vernacolo hanno fatto bandiera, da Nord a Sud. Tra gli ultimi esempi c’è, dalla Campania, una giovane donna che ha ereditato da chi l’ha preceduta l’amore per il folklore, la sapienza musicale e il vigore politico e sociale. A questi elementi, si mescolano suoni urban e melodie provenienti da lontano, dal bolero alla musica araba.
Chi è La Niña del Sud
Carola Moccia, in arte La Niña del Sud, ha pubblicato il suo ultimo album, Furèsta, giovedì 21 marzo. Un disco complesso e affascinante, stratificato esattamente come Napoli e tutto il Sud. Un inno alla marginalità, alla natura e al femminile. L’artista, che si serve del dialetto fin dai suoi primi progetti musicali, racconta una Napoli lontana dagli stereotipi, anzi riprende proprio molte delle tematiche che hanno contribuito alla costruzione dell’immagine stereotipata del Sud e le ribalta, conferendo loro un significato inaspettato. Il disco non a caso si apre con Guapparìa.

È una scrittura potente, quella della Niña, che risemantizza l’omonima canzone del 1914, in cui il guappo è un uomo carismatico, protettore e tiranno. Un bullo di quartiere che agisce sul mondo con forza e prepotenza. Carola Moccia ribalta il senso generale del brano originale: infatti, nella sua versione, al centro della narrazione c’è una donna che, con la sua guapperia, riporta l’attenzione su un potere che viene dalle proprie radici.

È una favola, il disco della Niña, in cui trovano spazio tuttə, gazze ladre (Pica Pica), serpenti e gatte. Il disco non pone al centro l’io dell’artista, ma il noi. La risposta è nella collettività, nello stare insieme, e ciò si riflette proprio sull’impianto corale dell’intero album. La voce di Carola è sempre accompagnata dal controcanto di altre donne che sono, insieme a lei, tempesta, che non possono e non devono più stare in silenzio (Figlia d’a tempesta). La Niña crea un universo popolare femminista, in cui c’è posto per tutti coloro che desiderano un luogo migliore. Sono donne che hanno il coraggio di sporcarsi, di suonare i tamburi con i capelli, di ribellarsi. Un album che è un manifesto politico collettivo in cui ci si può rispecchiare. Non si vuole pornografia del dolore, né si vuole esaltare il mito della purezza popolare. Per questo i suoni sono cupi: il mandolino, la chitarra e i sonagli si mescolano alla musica elettronica. La Niña piega il dialetto alla scoperta di un universo interiore che non è personale, ma sociale.
I precedenti
Tra i più noti e tra i primi ad aver costruito la propria carriera su un’identità musicale fortemente radicata nella tradizione folk, in Lombardia c’è Davide Van De Sfroos, che ha fatto del dialetto laghée, parlato nella zona del Lago di Como, la propria cifra. La sua musica fonde sonorità folk, country, blues e rock, creando un’atmosfera narrativa malinconica che richiama le ballate popolari. Il suo nome d’arte significa “vanno di contrabbando” e richiama la figura dei contrabbandieri, tema ricorrente nei suoi testi, che raccontano storie di persone semplici: emarginati, pescatori, migranti. Le sue canzoni sono spesso veri e propri racconti in musica, caratterizzati da un forte realismo.
Non si può non nominare Jannacci che, con la sua musica dai toni di cabaret e jazz, ha dato spazio a personaggi stralunati, ingenui, sfortunati, ma sempre umani. Il dialetto milanese diventa lo strumento perfetto per dare loro un’identità viva e autentica. Brani celebri come El portava i scarp del tennis raccontano storie di persone umili con una delicatezza che sfiora la poesia.
Se ci si sposta al centro Italia, Gabriella Ferri è la regina indiscussa anche grazie alla sua voce graffiante. La cantante ha reso famosi fuori dalla Capitale gli stornelli romani, reinventando i grandi classici della musica romana, in cui malinconia e ironia si intrecciano.
A Sud il dialetto nella musica è innegabilmente più presente, dalla Campania alla Sicilia, ed è proprio sull’isola che nasce Rosa Balistreri. Le sue canzoni sono diventate, nel corso del tempo, veri e propri atti politici, un modo alternativo di manifestare dissenso. La musica di Balistreri, infatti, si è fatta testimone-denuncia di un Sud in miseria, non romanticizzato. Ingiustizia, soprusi, discriminazioni di genere e violenza sono i nodi cruciali della sua discografia (Buttana di to ma è l’emblema di una storia di lotte e speranze dei siciliani.)